(di Gianni Schicchi) Il Settembre dell’Accademia entra nel vivo della sua programmazione col suo secondo appuntamento stagionale, forse il più accattivante, senza dubbio il più impegnativo, incentrato su due autentici capisaldi della letteratura musicale novecentesca. Il Verklärte Nacht di Schoenberg e la Prima Sinfonia di Mahler sono infatti tali, sebbene visti da angolazioni diverse, per le profonde motivazioni che portarono con sé. 

Due capolavori, che significarono per Schoenberg, il lavoro d’esordio più noto e significativo, prima della sua reazione al post romanticismo per spingere alle estreme conseguenze, non solo i mezzi sonori saturi del sistema tonale, ma gli stessi contenuti ideologici del linguaggio musicale romantico. 

Quanto a Mahler, la Sinfonia in re fu il frutto conclusivo di tanti giovanili ripensamenti – più volte rimandata a causa degli impegni con la direzione d’orchestra, salvo poi ritornarci più volte in fatto di orchestrazione e di articolazione formale – e della nota intransigenza del musicista nel preparare un’esecuzione, dove non era ammesso alcun compromesso con chi non rispettava la musica.

Due brani da far “tremare i polsi”, anche alla più navigata formazione orchestrale, ai quali ha dato il suo straordinario contributo la  Staatskapelle di Dresda diretta dal maestro Daniel Gatti: una delle più antiche orchestre al mondo e delle più qualificate per le sue storiche performance.     

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Verklärte Nacht fu composta per sestetto d’archi nel 1899 e presentata a Vienna nel marzo del 1902. Una sorta di poema sinfonico da camera (fatto del tutto inconsueto) ispirato ad una poesia di Richard Dehmel, pubblicata nel 1896 nella raccolta Weib und Welt. La versione per orchestra d’archi fu compiuta nel 1917 e ritoccata nel 1943 (quella proposta anche nel concerto al Filarmonico).  Nel testo: una donna confessa all’uomo amato di portare in grembo un figlio non suo e nello splendore della chiara notte ne riceve da lui un grande conforto.

La struttura del pezzo segue quella della poesia, secondo una costruzione a sezioni ed anche ad una logica puramente musicale: due grandi parti, di lunghezza quasi eguale, corrispondono all’inquieta confessione della donna ed alla risposta dell’uomo. La prima inizia in re minore e conduce al momento di massima intensità drammatica e la seconda in re maggiore rischiara di colpo il clima espressivo per approdare alla trasfigurazione finale.

Le due parti sono legate dai ritorni variati di alcuni temi, di cui i mirabili archi della Staatskapelle ne hanno saputo mettere fortemente in risalto la densità contrappuntistica, la proliferante ricchezza dell’invenzione melodica, l’inquietudine dell’armonia, e quel calore espressivo di Schoenberg che rivela una voce personalissima, pur negli evidenti rapporti con il mondo di Wagner, Brahms, Zemlisnsky, Strauss. 

Daniele Gatti la percorre non senza qualche speditezza, dove al posto delle tinte cupe e dense, impone una trasparente lucentezza di ordito che comunque non manca di rendere altrettanto teso e lancinante il canto degli archi, sposato ad una flessibilità di fraseggio e a una calibratura dei piani dinamici davvero impressionanti. 

La Staatskapelle dallo sterminato organico – 4 flauti, 4 oboi, 3 fagotti, 7 corni, 5 trombe, 4 tromboni, tuba, percussioni, arpa e archi –  affronta poi la Prima Sinfonia di Mahler alla ripresa del concerto. Una Sinfonia composta tra il 1884 e il 1888 col sottotitolo Titano, tratto dal romantico racconto di Jean Paul. Fu eseguita il 20 novembre 1889 a Budapest sotto la direzione dell’autore, nella versione in cinque tempi, con l’Andante Allegretto indicato come Blumine. Il delicato e nostalgico pezzo fu però abolito in occasione dell’esecuzione successiva a Berlino (1896).  

Nel dirigerla Daniele Gatti sembra voler indicare come saperci meravigliare davanti alla bellezza della musica e progredire sempre con l’attenzione più vigile. Nella pagina emerge pienamente la sua bacchetta perché ricrea la sinfonia senza perdere nulla di Mahler e senza lasciare un solo istante che l’orchestra suoni senza la sua presenza, di direttore vivo, con l’ideale di una musica totale. Nei tempi mossi la tendenza del direttore milanese è di non esagerarne l’aggressività, esasperandola.

Ciò che invece sembra interessargli è l’inarrestabile energia motoria come rappresentazione allucinata del vuoto, compresi gli stralunati sberleffi bandistici, resi con insolita distaccata eleganza. Il tempo “Solenne e misurato” del terzo movimento si snoda per esempio con passo deciso in un’inesorabile compostezza, mantenuta anche nel terribile climax che prepara l’enigmatico “Tempestosamente agitato” del finale.

La Prima Sinfonia riceve così una splendida restituzione dalla prova superlativa della Staatskapelle, di un nitore, un fasto timbrico e un virtuosismo nelle prime parti, da non far rimpiangere le maggiori compagini sinfoniche europee e americane. Gatti è ammirevole poi nel cogliere l’unità della partitura, nell’esaltarne i contrasti e nell’assicurare la necessaria tensione drammatica, anche se in certi momenti sembra bearsi del virtuosismo e delle magnifiche sonorità dell’orchestra per spingerla a cercare le tinte ruvide e i contorni taglienti capaci di rendere gli aspetti più inquietanti della Sinfonia.

Serata da incorniciare per il Settembre dell’Accademia, con teatro esaurito ed ovazioni alle stelle per gli esecutori. Concesso un bis agli insistiti applausi: l’Intermezzo da Manon Lescaut di Puccini: da far accapponare la pelle! (Gianni Schicchi)