(di Gianni Schicchi) Torna nuovamente al Filarmonico, l’apprezzatissima (molto amata dal pubblico veronese) Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia di Roma, da anni la migliore formazione italiana in attività. Con lei anche un importante direttore come Gianandrea Noseda – presente qualche anno fa alla guida dell’Orchestra del Regio di Torino – in un’accoppiata che ha saputo dare vita al terzo appuntamento del Settembre, unitamente ai due emergenti pianisti: il canadese Jan Lisiecki e l’italo-svizzero Francesco Piemontesi.

Il programma di sala si apriva con il pezzo Con brio del clarinettista tedesco Jörg Widmann, per proseguire con il Concerto per due pianoforti n° 10 in mi bemolle maggiore KV 365 di Mozart e concludersi con la Quinta Sinfonia in do minore op. 67 di Beethoven.      

Il brano non troppo usuale di Mozart ha colpito subito per l’intensità di suono e la brillantezza nelle articolazioni, grazie all’impagabile sezione degli archi ceciliani. Piemontesi e Lisiecki ne toccano poi molteplici atteggiamenti espressivi, muovendosi sui pianoforti con sorprendente scioltezza e riuscendo a svilupparne sfumature di suono e varietà di fraseggio ammirevoli.

La fantasia è un po’ restia a spiccare il volo, chiudendosi a tratti in certe ripetitività e senza volersi addentrare in terreni troppo personali, tuttavia non stancando mai. L’intesa fra i due solisti è sempre al massimo, anche quando affrontano una certa cantabilità nel patetico “Andante”, evidenziando come nelle cadenze originali emerga forse la stupenda genialità di Mozart, che esce dagli schemi della relazione solista-rchestra, anche se viene gestita con altrettanta unicità.

Nei tipici cambi di colore di queste pagine il duo dà il meglio di sé, spingendo gli strumenti (due magnifici Steinway) a toccare tensioni inconsuete e slanci virtuosistici che esaltano il ruolo del solista. Sembra che tornare su questi concerti, ormai ereditati da innumerevoli tradizioni, interpretazioni e registrazioni, possa essere superfluo o semplicemente ripetitivo, se non autoreferenziale, eppure c’è in questa loro esecuzione un incontro autentico tra solisti e orchestra, fusi in un organismo unitario in grado di mostrarci il concetto mozartiano del concerto, sia sul piano strutturale che timbrico. Fatti segno ai consistenti applausi del pubblico, Lisiecki e Piemontesi hanno poi concesso due bis servendosi anche della collaborazione del primo violoncello dell’orchestra.

Quanto alla Quinta Sinfonia di Beethoven, eseguita nella seconda parte della serata, l’impostazione di fondo adottata da Noseda è quella di un Beethoven nel solco della tradizione, di un passato lontano, in netto contrasto rispetto alla tendenza, dominante ormai, delle esecuzioni storicamente informate con o senza strumenti d’epoca. I tempi sono generalmente animati, di buon impatto drammatico, dove il generoso vibrato degli archi, la contenutezza dei contrasti dinamici, la rotonda morbidezza dei fraseggi, non lasciano dubbi sulla decisa opposizione alla prassi ormai più diffusa. La straordinaria trasparenza dell’ordito timbrico, la flessibilità talvolta sorprendente dell’agogica e la varietà degli accenti che punteggiano il discorso, conferiscono all’interpretazione di Noseda una vitalità, un’energia ed una ricchezza espressiva che non possono lasciare indifferenti. Lo si riscontra fino dalla restituzione, insieme spaziosa e compatta, dell’iniziale “Allegro con brio”, dove il dialogo calibratissimo fra archi e fiati, la fierezza e nobiltà dell’accentazione, la perfetta dosatura dei piani dinamici compensano ampiamente la sensazione di compassata reticenza, che sulle prime si potrebbe ricevere da un taglio così provocatoriamente all’antica.

Profondo, ma non enfatico è il “Sempre più allegro”, dove la sottigliezza del fraseggio imposto da Noseda e la grande bravura dell’Orchestra di Santa Cecilia raggiungono il risultato più alto della serata, in una severa compostezza espressiva, senza la minima concessione al facile effetto e alla soluzione scontata. Stupendi i corni e tutti gli strumentini.

Il concerto si era aperto nell’interessante Con brio di Widmann, che utilizza tecniche estese portando l’orchestra ad esplorare nuove possibilità sonore, mantenendo al contempo un chiaro riferimento alla tradizione classica, utilizzando frammenti e gesti musicali che evocano in particolare il mondo beethoveniano. L’orchestra romana ha concesso come bis l’Ouverture del Flauto magico di Mozart ed è stata festosamente salutata assieme al suo direttore con insistenti battimani ritmati del pubblico in un teatro esaurito. 

(Gianni Schicchi)