(di Simone Alessandro Cassago) Germania, la locomotiva che con la sua produzione trainava tutta l’Europa si ferma: sembra aver perso il suo slancio, arenandosi in un periodo di debolezza. Le cause sono diverse: prima fra tutte il rallentamento delle costruzioni causato dall’aumento dei tassi di interesse, seguito dal calo dei consumi interni a causa dell’inflazione e dalla crisi energetica. E soprattutto la fragilità dell’industria tedesca, generata da uno dei suoi settori chiave, quello automobilistico, che ha perso il suo vantaggio competitivo e tecnologico con l’avvento delle auto elettriche, al momento una scelta discutibile se non disastrosa.
La Volkswagen licenzia, in Germania è shock
A settembre il gruppo Volkswagen ha annunciato una riduzione di personale con 15 mila licenziamenti e la chiusura di diversi stabilimenti per fronteggiare la crisi: al momento non vengono rinnovati i contratti dei lavoratori interinali a tempo determinato. Ma ormai la miccia si è accesa e si dovrà infrangere un vero e proprio tabù, visto che in 87 anni non è mai stata chiusa una fabbrica e da 30 non si licenzia nessuno e c’era l’impegno con i sindacati di non farlo almeno fino al 2029. Attuare questo piano scatenerebbe una dura reazione di sindacati e politica, considerato che Volkswagen è controllata al 20% dal Land della Bassa Sassonia. E per certi versi la battaglia è già iniziata.
In che modo il governo tedesco cerca di fare fronte alle difficolta? L’impressione è che non sappia bene cosa fare. Si è visto quando, costretto da una norma costituzionale, ha dovuto fare un aggiustamento di bilancio, che a breve avrà un impatto negativo sulla crescita e deprimerà ancor più i consumi delle famiglie. La speranza è che l’effetto sia transitorio prima di tornare ai livelli del dopo Covid nel 2022. Sul lato della competitività del settore invece il governo direttamente può fare ben poco: e questo perché i cinesi si sono mossi prima e meglio soprattutto nell’elettrico.
Berlino potrebbe favorire la competitività dell’industria, se potesse fornire sussidi specifici, ma questo è vietato dall’Unione Europea, che pure ha chiuso un occhio nella fase acuta della pandemia per uscire dall’emergenza. Inoltre non ha senso mantenere settori che perdono slancio. Tocca alle case automobilistiche rivedere i piani industriali per tornare a crescere abbandonando per adesso l’orientamento al passaggio rapido e senza sfumature all’elettrico. Ma anche questa è una scelta politica che la Germania ha di fatto imposto all’Europa, creando problemi a tutti i partner.
E come gli altri Paesi, anche la Germania sta affrontando due grandi passaggi: quello ambientale e quello digitale. Come sta andando? Sulla transizione digitale anche Berlino è in difficoltà, perché la gestione dipende quasi tutta dai Lander locali, equivalenti alle nostre Regioni, e il governo federale ha poca voce in capitolo. Le amministrazioni locali hanno strutture molto antiquate e sono ostili a un drastico cambiamento: il per ora mantiene la Germania molto indietro rispetto al resto della UE.
Sulla transizione green non va meglio, anzi: soprattutto per la produzione di energia rinnovabile il governo eroga molti sussidi ma deve rivedere a fondo due scelte fatte negli anni scorsi: tornare indietro e abbandonare il massiccio utilizzo del carbone, molto costoso e inquinante, e accettare che la rinuncia al nucleare è stata un errore sciagurato da ammettere e sanare. La forzatura imposta dai Verdi al precedente esecutivo sta costando salata come costi di sostituzione e per l’aumento di emissioni: l’esatto contrario di quanto pianificato.
Questa condizione imporrà inevitabilmente la discussione sull’importanza dell’utilizzo dell’energia nucleare, che al momento appare l’unica alternativa. Anche perché ha perso di importanza anche il gas: da un lato perché non arriva più, per effetto delle sanzioni comminate dall’Europa a Gazprom per colpire la Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, e dall’altra per l’impossibilità di usare il gasdotto Nordstream, esploso nel settembre 2022. Mentre non ci sono ancora certezze sugli autori del sabotaggio, l’impianto comunque non era certificato e non stava ancora trasportando gas, ed è estremamente improbabile che venga messo in funzione.
Con il declino non traina più gli altri paesi
A parte gli effetti a medio e lungo termine, gli analisti insistono che la crisi sarà temporanea, e lo sostengono perché l’industria tedesca è sempre stata abbastanza flessibile, reagendo a difficili condizioni di mercato, compreso l’emergere di nuove potenze industriali. La scelta potrebbe essere accantonare la parte del settore automobilistico a minor valore aggiunto, specializzandosi su auto a elevata tecnologia o su macchinari alternativi. Anche in questo caso non sarà il governo ma al sistema industriale darsi nuove regole per recuperare terreno, grazie a manager con una visione di sviluppo e a tecnici e operai specializzati.
Ma chi potrebbe sostituire la locomotiva Germania ferma in officina? Tra l’altro non è una sorpresa: il declino è in corso già da diversi anni. Il suo tasso di crescita nel 2019 era solo di poco più alto della media europea: sicuramente meglio di quello italiano, non di quello francese o di altri. in passato Berlino è stata una parte forte dell’economia europea, ma ora non è solo più debole: ha anche smesso di trainare gli altri Paesi, anzi, in un certo senso frenandoli.
Ben altra importanza possono avere, e stanno già mostrandosi, le ripercussioni per l’Italia e il resto d’Europa. Se il cuore industriale d’Europa frena per le industrie e la UE andrà anche peggio. Ma la debolezza dell’economia tedesca potrebbe avere anche un effetto involontariamente positivo: ridurre la pressione sui prezzi tanto da consentire alla BCE di adeguare di conseguenza i tassi, con una politica monetaria meno restrittiva. Sarebbe un fattore molto importante per Paesi che hanno un debito pubblico elevato, come l’Italia. Abbiamo sì un debito pubblico elevato, ma rispetto all’anno scorso siamo scesi al 134,6% sul PIL rispetto al 155% in piena pandemia. Vale anche per la Francia, che si trova con un debito pubblico al 110% sul PIL e con una economia al momento altrettanto stagnante.
All’Italia qualche sforzo va riconosciuto in termini di discesa del debito pubblico, anche grazie al consistente innalzamento del PIL nominale. Il 134,6% appena citato significa che il rapporto, pur pesante, è invariato dal 2019 a oggi, caso unico nella UE, anche se la situazione va tenuta strettamente monitorata. Lo scatto italiano si può considerare un’eredità del governo Draghi unita alla rapida ripartenza dopo il Covid. Nel 2023 il nostro PIL si è contratto, ma è rimasto comunque in positivo al +0,7%, il che ci permette di mantenere un’effimera ma soddisfacente prima posizione tra i partner dell’area euro in termini di crescita post pandemia.
A rischio le nostre imprese manifatturiere
Vista la situazione sotto un profilo macroeconomico, va però rimarcato che la Germania è il primo partner commerciale dell’Italia, e la sua frenata rallenta anche noi e ci minaccia più di quanto avvenga per altri Paesi. Il valore dei nostri beni esportati a Berlino rappresenta infatti il 12,5% del totale dell’export italiano, un quarto di quanto esportiamo in tutta la UE. Un dato confermato dalle statistiche più recenti divulgate alcuni mesi fa (a questo link). Questo perché i due sistemi integrati di produzione italiano e tedesco sono fortemente interconnessi. Rappresentano in sostanza non più solo una filiera ma una solida catena globale del valore, in quanto l’Italia è un’importante fornitore di prodotti intermedi e beni capitali alle imprese tedesche.
La caduta della produzione manifatturiera tedesca comporta di conseguenza una condizione negativa per le esportazioni italiane, e impatta significativamente sull’andamento della nostra bilancia dei pagamenti. Proprio il rallentamento dell’export, pari al 26% del PIL nel 2017, ipoteca la crescita già a partire dal 2024, soprattutto per i distretti della metalmeccanica del Nord, e soprattutto per i Nordest, legato all’economia tedesca a filo doppio si può dire da sempre. Una condizione preoccupante se si considera che quattro anni fa, in piena pandemia, Verona viveva una ripresa significativa (a questo link il nostro articolo del 2020). In attesa di poter valutare l’evoluzione della situazione nel prossimo biennio, per adesso si conferma comunque che la lentezza della ex locomotiva d’Europa, tecnicamente in recessione, crea apprensione e problemi nei suoi partner strategici, a cominciare dall’Italia manifatturiera che ha Verona come riferimento.