(di Gianni Schicchi) Il penultimo concerto sinfonico della Fondazione Arena al Filarmonico è stato condizionato dal quasi concomitante impegno dell’orchestra alla Fiera del libro di Francoforte, dove l’Italia era l’ospite di turno, per un grande concerto dedicato a Puccini. Il teatro è stato perciò costretto ad operare “a ranghi ridotti” con un programma appropriato ad una quarantina di strumentisti, guidati da un direttore di grande esperienza come Pietro Borgonovo e mettendo nel contempo in vetrina un proprio solista: l’emergente giovane clarinettista Lorenzo Paini, in organico dal gennaio 2023.
Anche il proscenio, sprovvisto di camera acustica, ha condizionato il programma musicale, a causa dell’allestimento in atto per lo Stiffelio di Verdi in programma da domenica 27 ottobre
Si sapeva in partenza che con Pietro Borgonovo sarebbero emersi soprattutto i fiati e che i brani musicali non sarebbero stati del tutto consoni ad un “consumo popolare”. Infatti il programma di sala iniziava con il raro Monumentum pro Gesualdo di Venosa ad Cd annum di uno Stravinskij affascinato da quel musicista d’avanguardia che nel XVI secolo fu Gesualdo da Venosa; al punto che l’idea di lavorare su alcune sue opere costituì per Stravinskij una tentazione irresistibile e che una volta trovati tre dei suoi migliori madrigali i problemi principali stavano nello scegliere il registro adatto degli strumenti e studiare la differenza dei timbri fra le voci e gli strumenti stessi, cosicché quest’ultimi finirono per trasformare il carattere dei lavori di Gesualdo facendoli diventare canzoni strumentali.
Come secondo titolo di sala c’era poi l’Idilio dal Sigfrido di Wagner nella sua versione originale da camera, come la prima esecuzione in onore dalla nascita del terzo genito Sigfrido, con gli archi solisti, invece che raddoppiati, ossia due violini, viola, violoncello e contrabbasso. Le attenzioni maggiori erano però appuntate sulla successiva Kammersymphonie op. 9 di Schöenberg, un’opera di svolta nella produzione dell’eclettico musicista austriaco e pietra miliare sulla strada della sua evoluzione artistica.
Senza voltare del tutto le spalle alla tradizione musicale a lui più vicina, Schönberg vi sperimentò con decisione, forse anche con intenti programmatici, nuove soluzioni espressive, estendendo la sua ricerca a tutti gli elementi del comporre, l’assetto strumentale compreso, il più caratteristico, ma anche più problematico.
Ể chiaro che con la scelta di un organico di quindici strumenti solisti (flauto, oboe, corno inglese, clarinetto in re, clarinetto in la, clarinetto basso, fagotto, controfagotto, due corni in fa, primo e secondo violino, viola, violoncello e contrabbasso) l’autore intendeva allontanarsi dal gigantismo orchestrale del sinfonismo tardo romantico, da lui già accostato in precedenti lavori, per puntare con risolutezza verso uno stile breve e concentrato, che consentisse di indagare i complessi problemi di linguaggio rinunciando alle ripetizioni, alle progressioni e allo sviluppo tematico.
Presupposto del lavoro era infatti la assoluta equiparazione tra i quindici strumenti solisti, in un equilibrio di fondo, improntato ad una rigorosa unitarietà, nonostante le continue asprezze e deformazioni timbriche. Fu il tratto distintivo della nuova concezione schönberghiana e in prospettiva, superamento della poetica espressionista e punto di partenza sulla strada della dodecafonia.
La ripresa del concerto era invece tutta concentrata su due lavori di Stravinskij e Bernstein nel proposito di valorizzare la presenza del solista al clarinetto, di chiaro intento jazz: l’Ebony Concerto del primo e il Preludio, Fuga and Riffis del secondo. Stravinskij nei suoi primi lavori ispirati al jazz fu particolarmente interessato all’aspetto ritmico e nell’Ebony sembra ormai aver assimilato completamente questo aspetto, sfrondandolo da ogni intento esagitato; il ritmo qui è rivisitato ovviamente alla “sua” maniera, adottandolo e facendolo proprio nel reiventarlo senza forzarne i limiti.
Un concerto nella classica ripartizione in tre movimenti, dove l’Andante centrale corrisponde al tempo slow voluto dal musicista: un tempo lento, quasi un lamento stile blues e dove la variazione finale propone un assolo di clarinetto di notevole virtuosismo.
Un partitura che si è bene combinata col successivo Prelude, Fugue e Riffs di Bernstein, creato per un ensemble jazz con clarinetto solista, per cui anche Stravinskij aveva scritto l’Ebony Concerto nel 1945. Qui Lorenzo Paini si è dilettato a farci ascoltare quanto il suo clarinetto sappia fare prodigi di bravura, pieno di specificità, non solo scopo di esibizione, ma cura del senso intrinseco della partitura, dove i fuochi artificiali tornano ad avere un senso, il jazz un’arte e il suo clarinetto una deliziosa sostanza. Per la Fondazione Arena un acquisto di qualità.
Lorenzo Paini ha terminato la sua esibizione con un bis inaspettato: la trascrizione per il suo strumento e pianoforte (eccellente il collega Fabio Fornciari) della celebre Rapsodia in blue di Gershwin, sugellato poi dal lunghissimo applauso (quattro chiamate) del pubblico. Saggiamente diretta dal maestro Borgonovo, l’intera orchestra areniana, bene supportata dal alcuni innesti esterni, dove sono emersi i quattro clarinetti, guidati da Giampiero Sobrino, i cinque sassofoni (finalmente anche un sax baritono), le cinque trombe capeggiate dalla prima parte Massimo Longhi, i quattro tromboni a partire da Giancarlo Roberti e tutta la sezione delle percussioni con la batteria jazz di Giovanni Franco.