Stati Uniti e Italia hanno una relazione forte e consolidata, che nemmeno una combattuta campagna elettorale come quella che in questi giorni si sta avviando alla conclusione potrebbe essere messa a rischio. Anzi, proprio il voto in una situazione così critica a livello globale, geopolitico ed economico potrebbe aprire spazi e opportunità al nostro Paese, che al di là della nostra percezione interna gode di credito per la sua stabilità politica nel turbolento contesto europeo.
Un giudizio emerso durante il dibattito “Donald Trump o Kamala Harris? Un presidente che interessa anche noi”, organizzato dalla Fondazione Fare Futuro il cui segretario è il senatore di Fratelli d’Italia Matteo Gelmetti. L’incontro, condotto dal direttore de L’Adige di Verona Stefano Tenedini, è stato l’occasione per ascoltare gli americanisti veronesi Alessandro Tapparini e Mattia Magrassi, esperti della politica d’Oltreoceano e dei complicati meccanismi del voto. A questo link le video-interviste realizzate dal nostro Marco Danieli.
Dibattito: Stati Uniti, geopolitica, economia
Matteo Gelmetti ha esordito affrontando le implicazioni geopolitiche delle elezioni negli Stati Uniti e la posizione dell’Italia alla luce dello scenario internazionale: “Il voto avrà un impatto diretto sull’Italia e sull’Europa, soprattutto con le dinamiche globali generate dall’invasione russa in Ucraina, dalla crisi in Medio Oriente e dalle tensioni tra Cina e Taiwan. Questi eventi”, ha spiegato, “stanno portando a una transizione da un mondo globalizzato a uno più frammentato, in cui mercati e relazioni internazionali diventano sempre più regionalizzati”. Un risvolto di indubbio interesse a margine del dibattito che avevamo annunciato nei giorni scorsi (a questo link).
Per questo motivo “per l’Italia è cruciale rafforzare i rapporti con gli Stati Uniti per mantenere una posizione di leadership politica ed economica, in un contesto europeo segnato dall’instabilità di molti governi, come Francia, Germania e Spagna. L’Italia del governo Meloni viene al contrario descritta come una nazione stabile, autorevole, capace di attrarre investimenti internazionali”. Adattarsi alle mutate condizioni globali influenza infatti le decisioni dei grandi investitori. Lo dimostra anche l’arrivo di Silicon Box da Taiwan in Italia, favorito dalla sicurezza del nostro Paese per la protezione economica e militare offerta da un’Italia inserita nella UE e nella Nato.
Sulle elezioni americane Gelmetti ha auspicato che l’Italia, senza schierarsi, rimanga un partner credibile e stabile, a prescindere da chi vincerà tra Kamala Harris e Donald Trump. “Mai come oggi il voto negli Stati Uniti riguarda da vicino l’Italia e l’Europa, proprio a causa del periodo critico che stiamo attraversando. Con Washington dobbiamo essere uniti nella visione del futuro: il nuovo presidente americano, chiunque sia, dovrà sentire l’Italia come partner strategico di lunga data, un amico da continuare ad affiancare. Guardiamo con molta attenzione al voto “, ha concluso, “anche per anticipare i possibili scenari in base a una vittoria di Trump o di Kamala Harris”.
“L’elezione di un presidente degli Stati Uniti per noi è sempre importante, e forse quest’anno lo è ancora di più che in passato perché viviamo una fase di grandi crisi e riassestamenti”, ha confermato Alessandro Tapparini, autore per il periodico Jefferson–Lettere sull’America. “Per la UE e l’Italia la scelta del nostro interlocutore oltre Atlantico è la variabile che ridefinirà le priorità che ci riguardano sia direttamente che di riflesso”. Tapparini ha commentato così la questione se sarebbe meglio per noi Trump o la Harris: “Possiamo rispondere solo se sappiamo per primi noi dove vogliamo andare. Sia come Unione Europea che come Nato e ovviamente come Paese, la riflessione su dove riteniamo sia più conveniente posizionarci nel futuro è il punto di partenza obbligato per capire chi consideriamo l’interlocutore più favorevole per le nostre aspettative”.
Concorda con l’importanza delle elezioni ormai imminenti Mattia Magrassi, autore per Atlantico Quotidiano e presidente del Limes Club Verona . “Sarà un voto fondamentale per gli Stati Uniti, forse le più rilevanti per questa generazione. E di conseguenza lo sono per tutti coloro che gravitano nell’orbita statunitense, quindi giocoforza l’Europa e l’Italia in particolare. Senza dubbio sono elezioni da seguire con grande attenzione”. Anche per lui la domanda del giorno: chi sarebbe il migliore per il nostro futuro? La sua risposta decisa: “Dal nostro punto di vista cambierà poco, gli orientamenti e le linee guida politiche resteranno stabili: forse ci saranno posizioni o accenti più o meno netti, ma è perché lo sono i due sfidanti come persone. E soprattutto l’interesse degli elettori americani è incentrato sulla politica interna, mentre la nostra opinione pubblica in Italia ed Europa non dovrebbe vedere sconvolgimenti: e questo sia che vinca uno o l’altra”.
La discussione si è quindi spostata sull’inusuale percorso delle candidature, con un’approfondita spiegazione di Magrassi su come la candidatura della Harris sia stata una scelta di ripiego causata dal peraltro atteso e “incentivato” ritiro di Biden, che da tempo mostrava segni di declino fisico e politico. Inoltre la difficoltà della campagna del presidente uscente è stata attribuita a una serie di errori strategici e alla percezione di una possibile sconfitta dei Democratici in tutte le principali istituzioni.
“Trump fa Trump” e la staffetta Harris-Biden
Sempre riguardo i Democratici, e nello specifico le candidature “a staffetta” di Joe Biden e Kamala Harris, secondo Tapparini la ricandidatura di Biden aveva sollevato molte perplessità già nel 2020, fin dal giorno dell’insediamento: il partito si chiedeva se un secondo mandato sarebbe stato auspicabile. Spoiler: no, i vertici del partito non lo pensavano, figurarsi oggi dopo l’evidente declino. Il momento cruciale è stato il dibattito tra i candidati a giugno, periodo insolito (gli scontri tv tra candidati di solito si tenevano a settembre). Il dibattito ha avuto un pesante impatto negativo sulla campagna di Biden, fino a far ipotizzare che collocare così presto lo scontro in tv con Trump servisse in realtà a “testare” le sue residue possibilità di vittoria.
A quel punto, dopo il ritiro di Biden, Kamala Harris è stata scelta e candidata in un contesto già complesso: da vicepresidente in carica sostituirla con qualcun altro sarebbe stato difficile, una vera e propria forzatura. Una candidatura vista quindi non come la migliore, ma l’unica possibile. Da vice di Biden era stata immobile, marginale e poco visibile, ma per quattro anni comunque il ruolo le ha assicurato un minimo di visibilità. Harris, è stato sottolineato, era stata selezionata in origine per intercettare il voto delle minoranze e perché donna, quindi più gradita alle elettrici. Non certo per un passato politico in cui non ha mai brillato. Per questo il cambio in corsa non è stato sgradita al popolo Dem: se non altro, detto con malizia, perché almeno il candidato non era più Biden… E anche perché senza un minimo di continuità il partito avrebbe rinunciato del tutto a competere con Trump.
Sul lato dello sfidante ed ex presidente repubblicano, sempre sopra le righe anche alla Casa Bianca, i relatori hanno concordato che siamo di fronte a un “Trump che fa Trump”, cioè agisce esagerando sempre, nella consapevolezza che il suo elettorato ha bisogno di ricevere segnali forti, a tratti antipolitici. Rafforzando così una netta separazione dei due schieramenti, a partire dalla base: una sorta di “o di qua o di là” che si è già visto nel suo primo quadriennio, Eppure, a parte l’epilogo dell’assalto al Campidoglio del gennaio 2021, il suo estremismo comportamentale, i processi, la condanna e le inchieste non hanno prodotto fratture insanabili nella società americana, che peraltro è già è abbastanza divisa, come si nota su qualsiasi tema di attualità.
Divisioni che ci sono note, e che si allargano o restringono anche al ritmo di un’economia che al momento appare in ripresa. Tutti concordi, in conclusione, su una politica estera che non dovrebbe riservare gravi o pericolosi squilibri. Il resto del mondo, è stato in sintesi la conclusione del dibattito, alla fine agli americani interessa poco e in sostanza non dovrebbe incidere sul voto. A dimostrazione che si sta confermando la tendenza da tempo in atto: gli Stati Uniti, dalla politica fino alla gente comune, sono sempre più propensi a un progressivo ritorno all’isolazionismo.