(di Gianni Schicchi) Stiffelio di Verdi è tornata ieri pomeriggio in scena al Filarmonico nella regia e luci di Guy Montavon, le scene e i costumi di Francesco Calcagnini, la direzione di Leonardo Sini. L’opera non era mai stata data in precedenza al Filarmonico. Il buon cast a cui era affidata contava, sul tenore Luciano Ganci (Stiffelio), col soprano Caterina Marchesini come Lina, il baritono Vladimir Stoyanov in Stankar, il tenore Carlo Raffaelli in Raffaele e le parti minori di Gabriele Sagona (Jorg,) Francesco Pittari (Federico) e Sara Rossini (Dorotea). L’allestimento creato nel 2012 dal Teatro Regio di Parma era in coproduzione con l’Opera di Montecarlo.

La storia dello Stiffelio di Verdi fa parte di quella dell’Aroldo successivamente trasformato dal musicista, sparendo del tutto dalla circolazione. Ora, che in epoche recenti è stato riscoperto, ci si potrebbe domandare quali possibilità avrebbe di diventare un’opera di repertorio. Probabilmente meno di quelle che merita. Vero è che la trama di Souvestre e Bourgeois non dovrebbe più turbare le coscienze religiose, ma in ultima analisi essa è troppo complessa e sofisticata per un’opera lirica, presentando troppi rivolgimenti, dove soltanto gli ultimi due atti sono in qualche modo riconducibili ai termini operistici.

Alcune delle insufficienze sceniche vengono rimediate nel successivo Aroldo col suo nuovo ultimo atto, la maggior ricchezza tematica e in certi passaggi, la definizione più chiara del pensiero musicale. Tuttavia l’opera originale ha un’integrità che quella più tarda non riesce mai a recuperare del tutto, se non altro perché nel corso della revisione l’elemento religioso è ridotto della metà. La religione del tipo interiore e personale è, dopo tutto, l’argomento dell’opera. La parte del protagonista è una concezione unica e la sua musica è “tutta d’un pezzo”, dove lui viene rappresentato come un uomo di autorità, di zelo religioso e di condotta morale ineccepibili, già “sul declivio a valle – ma neanche molto – degli anni”, che diviene vittima di una disperata gelosia. 

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Stiffelio è un precursore, più controllato e meno vulnerabile di Otello. Da lui l’opera riceve il suo carattere dominante. La solennità religiosa espressa nei cori del II e III terzo atto, il senso di colpa e di terrore nella scena del cimitero, derivano tutti dalla stesura originale e ben si accompagnano con l’inflessibile misura dell’arioso in apertura di Jorg e del finale ultimo. Non si può surrogare l’unità di stile così evidente in un lavoro che è stato composto in un unico estro creativo. Pur con tutte le sue imperfezioni, Stiffelio è degno di stare a fianco dei tre capolavori che immediatamente lo seguono: Rigoletto, Il Trovatore, La Traviata.  

In scena la compagnia di canto è ben assortita, a partire dal protagonista Luciano Ganci, alle prese con una tessitura che impegna il registro centrale fino ad assumere connotazioni baritonali. Ma il tenore romano (ormai una realtà fra le più belle del canto nazionale) è tuttavia nel suo elemento più congeniale, sostenuto oltretutto da una forma fisica eccellente, sebbene abbia fatto annunciare dall’altoparlante, a fine del primo atto, di essere alle prese con una leggera indisposizione, che francamente non avevamo notato. L’aria “Non solo all’iniquo” è cantata splendidamente, con ricchezza d’accento, intensità di cavata e compattezza della linea vocale, magnifiche. “Opposto è il calle” poi libera dal suo denso timbro, un’amarezza austera, resa tanto più pregnante dalla sobrietà dell’accento. Il finale primo, una delle scritture tenorili più veementi, costruite su note sillabiche molto lunghe, è scolpita con una forza declamatoria rara, nella quale dizione e accento si fondono potenziandosi a vicenda. Davvero un Ganci straripante!

Note positive anche da Caterina Marchesini: una Lina dalla voce ampia, scattante, anche se l’emissione tende a spingere dal basso, di buon colore, con acuti penetranti e gravi (appena un po’ intubati), ma ricchi di corpo. Regge bene però il ritmo, a volte turbinoso, che alla narrazione imprime il direttore Sini, così da riuscire travolgente nel duetto con Stankar, piena di pathos nell’aria che apre il secondo atto, pateticissima nello scontro con Raffaele, specie nella frase “Fui sorpresa, non v’ama il mio cuore”.

Nobile personaggio poi lo Stankar di Vladimir Stoyanov (applauditissimo): bella voce, grande estensione con acuti facili e nitidi, ottima pronuncia, ammirevole ricchezza d’accento. Supera in maniera notevole anche la grande aria del terzo atto, tra le prove più ardue che un baritono verdiano possa proporsi. Le parti minori sono eccellenti, con l’esuberante Raffele di Carlo Raffaelli e l’ottimo Gabriele Sagona, nei panni di Jorg, come pure Francesco Pittari e Sara Rossini.

Ha diretto il giovane Leonardo Sini, già affermatosi nella Carmen della recente stagione in Arena. Una bacchetta grintosa, varia nelle dinamiche e nei coloriti, con stacchi di tempo rapinosi e indugi dal pregnante lirismo; ricca di mordente e di eleganza nelle scene d’assieme, ma soprattutto con un senso del racconto teatrale risolto in un afflato melodico davvero trascinante. Ottima la prestazione dell’orchestra areniana, come la compattezza dimostrata dal coro areniano, sempre più all’altezza sotto la sapiente guida di Roberto Gabbiani. La regia e le luci di Guy Montavon, con i costumi e le ampie scene, per profondità ed altezza, di Francesco Calcagnini hanno rispettato fedelmente lo svolgersi del racconto. Il pubblico non ha mancato al termine di salutare calorosamente tutti gli interpreti di uno spettacolo bene impostato e interpretato.

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