(di Gianni Schicchi) Una bacchetta gloriosa ed una giovanissima pianista emergente per il penultimo impegno stagionale de I Virtuosi Italiani: questi erano i personaggi che hanno animato il concerto di giovedì 7 novembre al Teatro Ristori. Sul podio era infatti presente, il maestro svizzero Oleg Caetani e al pianoforte sedeva la diciasettenne moscovita Maya Oganyan (residente a Venezia), impegnati in un programma incentrato su musiche di Bartok, Meyer, Shostakovic. 

Il brano di apertura era il famoso “Divertimento per archi” di Bela Bartok, (autore amatissimo da Oleg Caetani), scritto nell’agosto del 1939: una pagina conclusiva del periodo neoclassico del musicista, che mostra una struttura per molti versi simile al suo Secondo Concerto per violino, dove il primo e il terzo tempo sono accomunati dall’impiego del medesimo materiale tematico. Il recupero di taluni tratti propri dello stile barocco si manifesta nella frequente alternanza tra soli e tutti, che sembra far palese riferimento ai modi del concerto grosso, più che a quelli di un divertimento classico. 

Nonostante precedesse di poco l’esilio americano di Bartok, nonostante l’Europa si avviasse proprio in quell’anno verso la catastrofe della seconda guerra mondiale, questo lavoro è insolitamente sereno, gioioso, di un generale ottimismo che lo pervade, quasi la visione di un mondo migliore che superasse gli orrori di quegli anni.   

L’esecuzione voluta da Caetani è tesa in un’affascinante spontaneità che sembra nascere dall’estro del momento, da un innamoramento di ogni suono, di ogni disegno musicale, con l’incanto di essere lì in pubblico a dar vita alle note scritte, nonostante le evidenti e precarie condizioni fisiche che da tempo lo coinvolgono. L’intesa del maestro con I Virtuosi è perfetta: il direttore svizzero è un degno accompagnatore, ma l’aiuto nello scandire i tempi gli viene spesso dal primo violino Alberto Martini, che supporta e asseconda ogni tratto dell’interpretazione. 

Il secondo brano in programma era invece Musica Notturna (eseguita per la prima volta in Italia) del polacco Krysztof Meyer, compositore vivente, allievo dei vari Penderecki, Lutoslawski e Boulanger, della cui esecuzione però potevamo sinceramente farne a meno, senza screditare alcuno.    

Ma a stravolgere le “sorti” della serata c’era però il notissimo primo “Concerto per pianoforte e tromba op. 35” di Shostakovic. Un brano che vide la sua stesura subito dopo i 24 Preludi, con i quali condivide non poche componenti stilistiche: un’opera curiosa a cominciare dall’organico orchestrale.

Nei suoi quattro tempi, l’esuberanza gesticolare del giovane Shostakovic ha giustapposto, in una forma di scanzonata rapsodia lisztiana, alcuni temi da lavori di Beethoven (Appassionata) e Haydn, nonché la melodia di un canto popolare molto in voga in quegli anni 1933. Nell’assolo per tromba del quarto tempo, il compositore usa il tema del finale delle sue musiche inserite nell’opera di Dressel, Il povero Colombo. L’eterogeneità stilistica è notevole: l’inizio del Lento ha un pizzico dall’ostentata eleganza armonica di Ravel, nell’occhieggiare con finezza al repertorio leggero, ma il mosaico delle citazioni, realizzato nell’Urss di quegli anni, fa venire in mente anche un collage di Rodenko.    

La costante ispirazione, tesa tra l’opera di una graffiante ironia e i nostalgici abbandoni lirici, sono entrambi accentuati dall’impiego di un tromba solistica, attraverso la quale le due componenti risultano non poco esasperate. Anche il pianoforte appare costantemente bilanciato tra queste due connotazioni, presentando nei tempi veloci una scrittura caratterizzata da una forte componente percussiva e da una condotta ritmica spesso allucinata, mentre in quelli lenti è trattato con inedita varietà di chiaroscuri.

Siamo insomma di fronte ad un autore aperto alla sperimentazione e alla provocazione, tipiche delle prime avanguardie europee, con le quali condivideva il gusto per la parodia, l’impiego della citazione, le commistioni stilistiche e l’utilizzo dei materiali più eterogenei, oltre alla rottura degli schemi tradizionali.

Maya Oganian al pianoforte coinvolge già dalle prime note, quando fa risaltare come si presenta formalmente il concerto: una sorta di Divertissement articolato nei quattro movimenti. Di lei colpisce la forza di caratterizzazione, il temperamento, la nervosità digitale, luminosa, scattante, usata fino dal rapinoso primo movimento, così come il virtuosismo del finale, con l’impeto e la lucida razionalità del fraseggio. Un’esecuzione a tratti spettacolare, che asseconda mirabilmente le asprezze e le spigolosità della partitura, ma ricca di colori accesi alla maniera fauve, ben coadiuvata anche dalla lucente tromba di Angelo Cavallo.

Una esecuzione che esprime un’energia palpabile e che fa scattare al termine gli elevati consensi del pubblico, alle cui ripetute chiamate in proscenio la giovane interprete offre un graditissimo bis.