Oggi Cecilia Sala è tornata a casa. Solo per adesso, come sanno bene gli inviati, attratti dalle zone di crisi come gli orsi dal miele. Da italiani dovremmo TUTTI esserne felici, compresi quelli che vorrebbero negarne il merito alle istituzioni che l’hanno sottratta alla prigione di Teheran, e quelli che si chiedono “che cosa ci è costato”. Domanda che ci si può fare, per carità, ma cercando per una volta di seguire il principio che nessuno dei nostri connazionali va lasciato indietro. Mai. Poi vedremo i costi politici e riconosceremo meriti e colpe se ve ne saranno. Ma preservando un principio di civiltà e riconoscendo all’informazione il suo ruolo pubblico e sociale.
Ha sbagliato ad andare in Iran? No, come ha fatto bene ad andare in Afghanistan, a Gaza o in Ucraina. Se ami questo lavoro non puoi farlo dal divano. Lo so perché ho visto tante volte gli occhi preoccupati di mia moglie quando mi lasciava in aeroporto per “un posto un po’ così così”. Ma andare per raccontare, con tutti i rischi potenziali, è una professione che scegli e ti sceglie. E il privilegio di aver trascorso quei momenti – per poterli poi descrivere – in posti dove la guerra causava morte e sofferenze, è la parte cui sono più legato.
Cecilia Sala è stata a Verona la scorsa primavera, a un incontro in Vecomp Academy dedicato proprio al ruolo dell’informazione in un periodo in cui non si contano più i focolai di crisi. A lei avevamo chiesto se funziona bene, di come potrebbe ritornare a essere il più possibile onesta, veritiera e utile alla società, di come combattere le fake news, o come affrontare la paura quando sei lì. In meno di un anno i fuochi dello scontro globale non soltanto non si sono spenti, ma se ne sono accesi di nuovi e altri ancora potrebbero divampare in qualsiasi momento.
Per questo ho scelto di riproporre ai lettori del nostro giornale oggi, in questo bel giorno del suo ritorno in Italia, la lunga chiacchierata con questa giovane collega. In Cecilia sono molto felice di aver ritrovato la passione di chi alla tastiera o al microfono chiede il potere di raccogliere e rendere vive le storie delle persone. E attraverso queste indagare e descrivere quella che un giorno sarà la Storia maiuscola.
Stefano Tenedini
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Dal Venezuela alla Palestina. Passando per l’Afghanistan, l’Ucraina e l’Iran. La passione liceale per il giornalismo romantico dei grandi inviati s’è trasformata in un impegno professionale. Oggi Cecilia Sala scrive per Il Foglio, mentre nel podcast Stories, che oggi conta 700 puntate, racconta il male del mondo. E le speranze: quei giovani che si oppongono ai regimi più brutali in nome della libertà, di un futuro finalmente in pace.
Cosa mettere nello zaino, come sfuggire all’accerchiamento, oltrepassare le frontiere con visti di fortuna, usare un asciugamano come bandiera bianca. È la rischiosa scommessa per riportare a casa voci, dolore e rabbia, ingiustizie e solidarietà. In una parola: notizie. Tutte vere? No, come abbiamo imparato: ed è proprio l’occhio della cronista che deve fare la differenza, stare con i più deboli senza farsi annebbiare dalle narrazioni dei più forti o dei più bravi a raccontarle.
Il racconto inizia da quella notte in Ucraina, mentre i russi bombardavano. “Ero in Donetsk con i militari ucraini, e i russi lanciavano fosforo bianco, un esplosivo che è il re degli incubi. Sembra quasi bello, un fuoco d’artificio, ma a terra divora tutto quello che incontra, bruciando a una velocità spaventosa. Se sei con i militari devi stare con loro per tutta la missione… e che Dio te la mandi buona. Se non sei una persona ansiosa sfrutti l’adrenalina. Se governi e moduli la paura, allora riesci a metterti il cuore in pace. Se non puoi farci niente… beh, continui a fare quello che avresti fatto se non fosse esploso quel fuoco d’artificio bianco in cielo”.
Voci di dolore, rabbia, ingiustizie, solidarietà
Con queste premesse l’incontro ha preso un’altra strada grazie a Francesco Masini che ha incanalato il suo torrente di storie e a Cecilia, una relatrice-testimone come può esserlo solo una giovane giornalista abituata a confrontarsi con ciò che accade nel mondo, cercando di illuminare vicende internazionali di cui, essendo in prima pagina e in prima serata, i lettori credono di sapere tutto. L’informazione di cui c’è bisogno è basata sui fatti, non sulle opinioni. Si nutre di incontri con le persone, non con i governi. Propone un racconto lineare dei fatti, e di sicuro non una loro interpretazione di comodo.
Così Cecilia Sala ha affrontato con occhi di osservatrice attenta questo periodo tanto tormentato. Inviata del Foglio per le aree di crisi (il più delle volte vuol dire che c’è guerra), è podcaster con Stories e ha narrato le vicende di Venezuela, Cile, Iran, il ritorno dei dogmi talebani in Afghanistan, l’invasione russa dell’Ucraina, lo scontro tra Israele e i palestinesi. Da queste esperienze ha preso spunto per il suo libro L’incendio, con cui aiuta a capire cosa sta succedendo. Presentandola al pubblico della Vecomp Academy Francesco Masini le ha chiesto semplicemente come e perché finisce sempre dove ci sono casini, soprattutto all’estero.
“Ho capito al liceo che volevo fare questo mestiere: l’idea ingenua e romantica di un giornalismo di grandi inviati per grandi fatti, altro che cronista parlamentare tenuta a strappare a Renzi la battuta su Calenda o viceversa”, risponde Cecilia Sala. “Volevo fare la reporter nonostante sia un settore in crisi e sapendo che sarebbe stata dura trovare qualcuno che mi ci mandasse da inviata, visti i costi. Così ho iniziato in redazione costruendomi un profilo da freelance: non mi ci “inviavano”, ma apprezzavano che ci andassi prendendomi le ferie per seguire le crisi: come nel Venezuela per lo scontro tra Maduro e Guaidó”.
Imparando il mestiere sul campo sperava che qualcuno la assumesse, per non coprire solo le spese. Lo hanno fatto Claudio Cerasa al Foglio e Chora Media di Mario Calabresi, che voleva la prima inviata podcaster. E proprio Chora Media ha fatto un regalo a chi aspetta di risentire Cecilia sul Stories: “Ciao, sono tornata”, il racconto della giornata. Lo trovate a questo link.
Anche con una testata alle spalle è comunque un lavoro faticoso. Si sceglie quale crisi andare a seguire, anche se alcuni fatti si impongono da soli: ad esempio il 7 ottobre per il massacro degli israeliani, o i talebani a Kabul nel 2021. In Ucraina Cecilia Sala c’era stata poco prima dell’invasione e voleva tornarci: aveva il volo proprio il 24 febbraio, nel giorno dell’agguato russo. Non ha potuto arrivare a Kyiv in volo da Roma, ma ha ridisegnato l’itinerario via terra, cercando quali fossero i confini transitabili: poi è passata in treno dall’Ungheria. E in Ucraina durante il coprifuoco aveva un asciugamano del bidet preso in albergo a farle da bandiera bianca.
Lo stesso in Afghanistan: caduto il governo nessuno poteva farle un visto, così è arrivata via Uzbekistan attesa da un amico. Ma passare la frontiera è stato, dice, “complicato”. Nel mondo le situazioni si evolvono di continuo, e ogni cambiamento può essere pericoloso: “Adesso a Kyiv in un giorno tranquillo quasi non ti accorgi che sei in guerra”, spiega Cecilia Sala, “ma nel 2022 era spettrale, paranoica, hotel chiusi e civili armati. Fosse stata accerchiata saresti rimasta isolata senza contatti: non sapevi come muoverti. Un tizio col furgone mi avrebbe portato fuori, ma il prezzo saliva ogni giorno. Il pericolo è all’inizio, prima che la crisi si assesti e impari a muoverti. Pendi contanti e medicine, ti prepari”.
Cecilia Sala: “Diffidare di chi si dice neutrale”
Il pubblico può schierarsi, ma come fa l’inviato a restare equidistante e non stare da “una” parte? “Diffido di chi si dice o si racconta neutrale”, spiega. “In alcuni momenti è più facile capire: in Iran non puoi non stare con la ragazza arrestata dalla polizia religiosa, o in Ucraina con le vittime del teatro di Mariupol. L’importante è non farsi annebbiare. Da giornalista so di poter cambiare idea, sono curiosa di sapere cosa succeda davvero. E puoi cambiare idea, se conosci i fatti. Per l’esplosione del gasdotto North Stream si pensava a un’operazione russa, poi sono emerse ipotesi contrarie”.
Tutto il mondo, dice Cecilia Sala, è un potenziale focolaio di dubbi. “Lo stesso, ma peggio, in Israele. Dal 7 ottobre scopri che tutti conoscono qualche vittima e condividono lo strazio degli ostaggi, ma ciò non ti impedisce di vedere le stragi a Gaza. Le preferenze non celano le dinamiche, come la morte dei volontari che portavano i pasti caldi a Gaza su un convoglio colpito più volte. Se sei onesto ti fai delle domande, devi chiederti quali sono le logiche e i limiti del conflitto. Essere tifosi serve a chi non vuole chiedersi chi ha torto e ragione, ma non arricchisce il dibattito né migliora le crisi. Noi giornalisti dobbiamo capire dove stia la verità”.
Nel suo libro racconta le storie dei giovani: ucraini, iraniani, afghani sono i ventenni che ti mostrano il contesto, ti spiegano i motivi, gli effetti, la realtà del conflitto. I giovani sono il modo migliore per capire. In Afghanistan la coalizione se ne va e ritornano i talebani, che vengono visti come un’invasione aliena. Nei vent’anni dopo il 2001 si pensava che le cose potessero cambiare: elezioni cui partecipare, bambine da portare finalmente a scuola, donne vendute a mariti violenti che potevano tornare in famiglia. Dei passi avanti nonostante diseguaglianze, ingiustizie e corruzione. Ma tutto questo è stato annullato in un attimo”.
“Succede la stessa cosa in Iran: ammettono che la rivoluzione contro lo scià ha fatto solo danni e passi indietro, perché non volevano mandarlo via per sostituirlo con il clero. La società iraniana è più libera di come la vorrebbe la repubblica islamica, e i ventenni vivono questi ideali di opposizione. A Kyiv la prima generazione nata senza il peso di essere sovietici (o ex) è quella dei giovani che protestavano a Maidan nel 2014: gli ucraini sanno che l’aggressione del 2022 è la punizione di Putin per aver guardato all’Europa. “Mi mostrano cosa succede in quei paesi, le origini delle crisi, come da quel passato ci si è ritrovati in questo presente”.
Ancora in Medio Oriente, ci incuriosisce e inquieta l’Iran che dal 1979 è nemico strategico ed esistenziale di Israele, che per gli ayatollah non dovrebbe proprio esistere. Però ora la causa palestinese di cui Teheran è sponsor vede molti Paesi arabi meno solidali, dagli Emirati ai Sauditi e dalla Giordania all’Egitto di Al Sisi. Per questo l’Iran ha finanziato e scatenato le sue milizie contro gli israeliani, in testa Hamas, Hezbollah e gli Houti. Ma ora ha ribaltato il principio di non attaccare direttamente Tel Aviv e ha lanciato missili e droni: è cambiato qualcosa? Sì, una risposta differente che ha molto a che fare con le dinamiche di potere interne all’Iran.
Dell’Ucraina Mosca continua a dire che è colpa dell’Europa e della Nato, per spingerci a non aiutarli più a difendersi. Ma la Nato non costringe i Paesi ad aderire, sono i Paesi a chiedere di essere ammessi: e anzi, spesso la risposta era no, come era stato detto anche all’Ucraina perché il rischio di un confronto con la Russia era troppo elevato. Però se Kyiv fosse entrata nella Nato Putin non avrebbe attaccato e avremmo avuto meno problemi geopolitici ed economici. Ma l’Europa comprava il gas russo, ed è complicato staccarsi da certe relazioni tossiche.
È sempre difficile capire come evitare le crisi, non ci sono regola standard. Però sembra sia sempre colpa dell’Occidente, e per sostenere questa tesi si cita l’Iraq: ma l’invasione di Kyiv è vera, non basata su informazioni false. Eppure in Ucraina i morti civili aumentano proprio perché non mandiamo più munizioni per la difesa aerea. C’è una ragione strategica per non farlo? No, e infatti è Putin che continua a bombardare per spingere gli ucraini a cedere. Cosa che non succederà: infatti anche Hamas non ha mai smesso di combattere. Si torna – a sproposito – agli accordi di Minsk, quando Putin fingeva di trattare mentre militarizzava la Crimea: un’aggressione camuffata da “denazificazione” per prendersi tutta l’Ucraina.
Nessuno si fida di chi non ha visto di persona
Per Cecilia Sala raccontare è indispensabile. Per questo è instancabile nel rispondere alle domande, soprattutto quando si moltiplicano i dubbi sul ruolo dell’informazione: ci si può fidare o bisognerebbe fare tutti come lei, “andare a vedere”? “Ho la sensazione che nessuno si fidi più se non di chi ha visto con i propri occhi, ma questo non è possibile. La disinformazione e la cattiva informazione sono il vero rischio che affrontiamo adesso: non tanto il deep fake, ma non credere neanche ai video veri, nello screditare anche quello che è evidente… Però se non c’è fiducia nelle prove si mette in crisi la coesione sociale, il che mi turba tantissimo”.
Cambio di scenario: dovremo affrontare anche una crisi Cina-Taiwan? “Spero e credo di no, ma non credevo neanche all’attacco dell’Iran a Israele, all’attacco a Kyiv o al ritorno dei talebani a Kabul. E come me la pensava la CIA… Invece confronterei la Cina con la Russia. Putin si sente umiliato e a disagio con questo ordine mondiale, mentre Pechino ci guadagna un sacco, è felice che la Russia sia indebolita dalle sanzioni e che gli Stati Uniti siano impantanati. Non penso che la Cina voglia una rivoluzione per Taiwan, dalla quale avrebbero molto da perdere. Certo possono essere decisi e brutali come a Hong Kong, ma non credo una guerra rientri oggi tra le loro ipotesi strategiche”.
Cecilia Sala, in guerra come affronta la paura? “Credo che debba essere un rapporto “sano”, perché è un’emozione fondamentale. Non ho paura di andare nelle aree di rischio, ma ne ho quando lo vedo e lo riconosco. Se avessi paura per il solo fatto di andare in Ucraina smetterei di fare questo mestiere. Ma sbaglierei anche se non mi preoccupassi nemmeno sotto le bombe: sarei più in pericolo e metterei a rischio anche gli altri, come purtroppo capita. Insomma, la paura c’è quando ci deve essere: quindi non sempre, ma neanche mai”.