(di Gianni Schicchi) 1975: Legnago si accingeva a festeggiare i 150 anni dalla morte del suo illustre concittadino Antonio Salieri e Verona aveva da poco ottenuto la stabilità del suo Ente Autonomo Arena, riconosciuto così fra i teatri nazionali sorretti dal contributo statale. Il che significava attività continuativa anche al chiuso del Teatro Filarmonico (oltre che in Arena) da poco concessogli in comodato dall’Accademia Filarmonica. Il sovrintendente Carlo Alberto Cappelli pensò che fosse utile unire le forze con Legnago per proporre la coproduzione di un’opera di Salieri che ottemperasse al doppio festeggiamento. Fu così messo in scena il Falstaff, che debuttò il 9 e 11 novembre al Teatro Salieri e 14 e 16 novembre al Teatro Filarmonico, aperto definitivamente al pubblico.
L’opera in edizione critica è tornata a farsi ascoltare al Filarmonico con la regia di Paolo Valerio, autore anche dei costumi settecenteschi realizzati dall’Atelier Nicolao, con le scene e projection design di Ezio Antonelli e le luci di Claudio Schmid per un’atmosfera tutta veneziana, libertina e rococò. Il cast di giovani interpreti è diretto, con i complessi artistici e tecnici areniani, dal maestro Francesco Ommassini.
Su una strumentazione sostanzialmente mozartiana, Salieri imposta questo suo Falstaff sui consueti canoni dell’opera comica, alternando accortamente sia il recitativo secco, sia quello accompagnato dall’orchestra ed attuando inoltre uno schema formale assai libero quanto ad arie, duetti e terzetti onde evitare ogni pur facile rischio di scolasticismo. Ma per sveltire abbastanza l’azione pensa anche a rimpicciolire tutti questi schemi, svincolandosi in qualche modo con alcune didascalie indicative, come “specie di duetto”, “piccola aria”, ecc.
La comicità dell’opera, dall’intreccio abbastanza complicato che ne potrebbe compromettere la fluidità del decorso, risiede nella rappresentazione, prima che nella musica. Poche concessioni allo stile buffo italiano si possono rinvenire nelle arie e nei concertati d’assieme, come nessuna anticipazione dell’ironia rossiniana (vocale e strumentale) è individuabile in un soggetto che ruotando attorno da un personaggio grottesco com’è Falstaff, darebbe pure agio a possibili riscontri e somiglianze.
Piuttosto Salieri, anticipando le future traduzioni di questo soggetto shakespeariano, mira ad un discorso d’assieme, in cui Falstaff è figura preminente, ma non predominante. In tal senso, come per nessuna altra opera comica di Salieri, si addicono a questo Falstaff le considerazioni del suo primo biografo Edler von Mosel, che nel 1827 notava già come il musicista sapesse “scegliere lo stile adatto per ogni poesia (testo), considerare attentamente ogni situazione scenica, disegnare giustamente ogni carattere, esprimere in modo naturale ogni sentimento”, senza mai cedere al gusto della caricatura, tipico dell’opera buffa italiana ed iperbolizzato (ma in ciò demistificato) da Rossini.
Francesco Ommassini guida l’opera con raffinata cura dei dettagli, attento a valorizzare gli apporti quasi concertanti di alcuni strumenti – soprattutto i fiati – e ad esaltare i colori e il suono smagliante. L’eccesiva attenzione alla bellezza formale lo distoglie un po’ dalla narrazione che solo a sprazzi si fa incalzante come richiedono la situazione scenica e la musica stessa. Giulio Mastrototaro è perfettamente immerso, vocalmente e scenicamente, nel ruolo del protagonista, vecchio donnaiolo spiantato, calcolatore e arrivista, condito da una giusta dose di prosopopea, che induce ad una blanda simpatia solo per la sciocca credulità con cui cade nelle trappole da lui stesso innescate.
Un Mastrotoro spesso incontenibile, che padroneggia spavaldamente il palcoscenico e che ne diviene spesso il protagonista assoluto, basti pensare a come riesce a destreggiarsi in una delle tante arie che ne distinguono l’insulsaggine, “Nell’impero di Cupido sono un Cesare, un Achille”. E che nella redenzione finale (colpo a sorpresa) si libera della ridicola pancia con cui l’hanno costretto a cantare.
Fra gli altri del cast: Marco Ciaponi è il Ford (Broc) del classico tenorino che ha ottime, sia pronuncia che linea di canto. Michele Patti è invece uno Slender che canta bene come sempre, ma che sa anche articolare la parola facendone “cantare” le consonanti così da dare colori e significato e porge con gusto nelle belle pagine riservategli, come la splendida “Dietro quella collina appiattitevi intanto”. Gilda Fiume interpreta una Alice Ford encomiabile, con un timbro valorizzato da emissione e musicalità esemplari. La ragguardevole estensione le consente sia acuti facili, timbrati, con note altrettanto piene, sia in centri sonori ricchi di armonici. Le fa eco Laura Verrecchia una mrs.
Slender prestante anche fisicamente, con in più la bellezza di un timbro incisivo, vibrante, anche nello zone profonde della scrittura e la vivacità di un accento spiritoso e solo qualche volta, spiritato. Eleonora Bellocci: una graziosa Betty cui è riservato il brioso racconto del tuffo di Falstaff, reso ancora più gustoso dal gioco orchestrale con l’onomatopea delle onde del Tamigi. Da ultimo Romano Dal Zovo (Bardolfo), che tratteggia adeguatamente (anche vocalmente) un personaggio che macchina le sue astute ruffianerie quasi con l’accento di un filosofo speculante sui massimi sistemi.
Abbiamo assistito alla recita di mercoledì 22 di uno spettacolo godibilissimo di cui il regista e costumista Paolo Valerio ha dato una lettura scintillante, in una cornice veneziana suggestiva, tradizionale, ma pure moderna, avvalendosi del bellissimo project design di Ezio Antonelli, che usa come fondali due copertine di un libro che si schiudono svelando paesaggi poetici, con l’acqua della laguna, i suoi ponti e tutta l’architettura veneziana che è nell’immaginario di ognuno di noi. Ottimo l’intervento del coro areniano preparato da Roberto Gabbiani e dei dodici mimi preparati da Daniela Schiavone. Successo indiscusso.