(di Gianni Schicchi) Pregevole l’iniziativa de I Virtuosi Italiani di presentare nella propria stagione concertistica un virtuoso di fama come l’oboista Paolo Pollastri che da oltre un trentennio è la prima parte dello strumento nell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia a Roma.
Un artista e rinomato docente che oggi gode della massima stima sia per l’affidabilità che per la disponibilità nel misurarsi con tutti quei complessi orchestrali che ne richiedono le prestazioni. Ne sanno qualcosa I Virtuosi Italiani la cui collaborazione dura da decenni.
Pollastri è tornato con l’orchestra veronese giovedì sera 20 marzo, per un concerto a San Pietro in Monastero, portando con sé uno strumento raro come l’oboe d’amore sul quale ha improntato l’intero programma, chiamando in causa compositori come Lotti, Telemann, Bach che dello strumento hanno lasciato impronte particolari.
Va ricordato che l’oboe d’amore appartiene alla famiglia degli strumenti ad ancia doppia ed è molto simile ad un oboe, però leggermente più grande e con un tono più tranquillo e sereno che lo fanno avvicinare alle voci di mezzosoprano e contralto della famiglia degli oboi, con la campana a forma di pera e il bocchino simile a quello del corno inglese. L’oboe d’amore è accordato ad una terza minore sotto quella dell’oboe moderno, risultando quindi uno strumento traspositore della nota di La.
Bach scrisse vari pezzi per questo strumento fra cui un concerto, quello in la maggiore BWV 1055, proposto nella serata assieme agli altri nella stessa tonalità di Georg Philipp Telemann e di Antonio Lotti. Anche musicisti del Novecento scoprirono le grandi doti dello strumento e lo chiamarono in causa, dopo il suo disuso per tutto l’Ottocento, da Richard Strauss nella sua Sinfonia domestica, a Claude Debussy nelle Images per orchestra, a Maurice Ravel nel suo celeberrimo Bolero, fino a Frederick Delius.
Nella accogliente serata di San Pietro in Monastero ci ha letteralmente sorpreso l’atteggiamento sereno e determinato tenuto dal solista bolognese, specie nel concerto di Telemann, giustamente famoso per la sua valenza melodica, suddiviso in quattro movimenti, aperto da un sommesso Siciliano teneramente cullante e proseguito con un Allegro assai fluido e disteso, nel corso del quale Pollastri ha alternato stupendi passaggi, accompagnati dal solo basso continuo, ad altri dialogici con i singoli archi de I Virtuosi. Ma l’oboista si è superato poi nel far risaltare il forte contrasto del Largo in la, pagina profondamente malinconica, introdotta (e conclusa) dai dissonanti “anapesti” degli archi, alternati da lunghe pause, che gli hanno lasciato poi il compito di dipanare, accompagnato dal solo basso continuo, una sommessa melodia, punteggiata di dissonanze, la cui intensa connotazione è stata ulteriormente evidenziata dal timbro brunito del suo strumento.
In ogni brano affrontato, sia per Lotti, ma specialmente per quello fresco e luminoso di Bach (bissato al termine l’Allegro non tanto del Concerto in la maggiore), la lettura di Pollastri si rivela sempre elegante, soffice, profumata di quella raffinatezza che è propria del barocco. Suona con sicura padronanza, evocando cosmi sonori ormai stratosfericamente lontani, improntati ad una confortevole armonia più che alla sperimentazione di qualche nuovo modo di affrontarli. Una musica rassicurante, che viene anche da una approfondita ricerca espressiva e che non disdegna, a tratti, di mettere in primo piano il virtuosismo più brillante ed estroverso.
I Virtuosi Italiani guidati da Alberto Martini hanno poi completato la serata proponendo tre animati brani per soli archi: dall’intrigante Concerto in sol maggiore “La Rustica” RV 151di Vivaldi, alla Sinfonia in sol maggiore di Fasch, fino al celeberrimo Canone in re maggiore di Pachelbel lungamente applaudito dal pubblico. Successo e grandi ovazioni per tutti al termine.