(di Gianni Schicchi) Terzo Concerto sinfonico della stagione con grandi interpreti….e il pubblico risponde subito riempiendo il Filarmonico, come nella serata precedente di venerdì 28. Questa la bella constatazione da rilevare subito, completata poi da una prestazione superlativa (inimmaginabile di questo livello solo pochi anni fa e dovuta alle tante immissioni di giovani leve) dell’orchestra areniana sotto la guida dell’americano Ryan McAdams, grande sostenitore della musica contemporanea, oltre che direttore principale della più eminente formazione di musica contemporanea d’Irlanda e ormai artista di chiara fama guadagnata da tempo anche in Italia. Non dimenticheremo la sua direzione del Requiem di Lloyd Webber di qualche anno fa al Filarmonico: semplicemente da antologia.
Mc Adams ha aperto le “ostilità” con un discreto lavoro dell’irlandese Donnacha Dennehy, brano scritto durante il Covid, ma subito dopo ha affrontato la musica della pantomima Il Mandarino meraviglioso di Bartok a ricordo degli ottant’anni dalla scomparsa. Una pagina sempre avversata per il suo soggetto scabroso, tuttavia in possesso di una orchestrazione fra le più riuscite di tutto il Novecento, con i suoi glissandi degli ottoni, il tremolo delle percussioni, seguiti da un orientaleggiante marcato Maestoso che fa da pari col numero orchestrale più riuscito: la danza del Mandarino con la prostituta, che parte da un valzer appena accennato e in un crescendo incalzante giunge a uno spettacolare fortissimo dissonante.
McAdams è un direttore dalle idee chiarissime, che non trascura il minimo degli attacchi e che sa rivelare quante sfumature si susseguono poi nelle trame orchestrali bartokiane, disegnando un equilibrio esemplare. L’orchestra areniana è eccellente in ogni sezione, soprattutto nei rilucenti ottoni, che in alcune fanfare sembrano evocare musica antica. Un Bartok così finalmente rinato, tornato al suo splendore visionario, nelle sue modernità atipiche, nella rielaborazione di linguaggi, liberato da asettiche destrutturazioni.
C’era in programma, nella ripresa, anche il famoso Terzo Concerto di Rachmaninov che ha avuto poi un solista importante, straordinario potremmo dire con tranquillità, nel russo Mikhail Pletnev. Un pezzo per lui abituale, eseguito in numerose altre occasioni, il cui inizio è di grande fluidità e cura dei dettagli. Fin dalle prime battute il pianista è riuscito a sfruttare tutte le possibilità del cantabile, con uso del pedale leggermente parco, ma con un bilanciamento dinamico dell’orchestra forse non sempre perfetto. Subito dopo però si sono potute apprezzare le linee chiare, nette del suo pianoforte, frutto oltre che di un particolare approccio digitale, di un consapevole lavoro su ogni battuta e sull’architettura generale del pezzo. Così come si sono distinte la piena comprensione dell’armonia e del ritmo armonico, un timing magnifico, un lavoro approfondito sul fraseggio e cosi via.
Ma quanto ci ha colpito di questo Terzo Concerto è ciò che ha avuto a che fare proprio con l’approccio estetico e psicologico del sessantasettenne pianista di Arcangelo: ha eseguito quello che viene considerato uno dei più grandi omaggi al virtuosismo pianistico come se non si curasse di tale aspetto, anzi quasi ribellandosi a tale immagine. In qualche maniera Pletnev è riuscito a sottrarsi all’elemento atletico e muscolare per ricondurre il brano a una dimensione superiore, o se si preferisce ancora più spirituale e introspettiva.
Ể come se avesse detto al pubblico di scordarsi, di dimenticare l’immagine stimolata dal bel film Shine di Scott Hicks sul concerto, per riconvertirsi a un Rachmaninov più discreto, più intimo. Ể come se tentasse di radicare il romanticismo del compositore russo ad un’estetica quasi neoclassica di tipo stravinskiano, riuscendovi alla fine. Non sappiamo se tutto questo abbia rispecchiato veramente i suoi propositi, ma ci è sembrato l’effettivo risultato al quale non di rado è riuscito ad approdare, coniugando il tutto ad una intensità che è permasa dall’inizio alla fine del concerto. Una grande lezione di pianismo, da far accapponare la pelle.
Non è certo frequente ascoltare un Terzo Concerto di Rachmaninov connotato da tale carattere, per questo sono necessarie personalità, tecnica, esperienza che naturalmente non tutti i pianisti posseggono. I fragorosi applausi finali (tutto il pubblico scattato in piedi) sono riusciti a strappare due bis al solista, fra cui un Chopin delicatissimo, quasi impalpabile, a coronare un pomeriggio di grande musica.