(di Giulio Bendfeldt) Sessantasei anni fa, il 26 ottobre del 1954, si completava il Risorgimento nazionale con il ritorno definitivo di Trieste all’Italia e si chiudeva, dopo nove anni, il periodo di terrore che aveva accompagnato nel Friuli-Venezia Giulia e nell’Istria la fine della seconda guerra mondiale. Un periodo che ha visto il genocidio e poi l’esodo drammatico della popolazione italiana d’Istria, Dalmazia e delle Isole del Quarnaro. Tutti ricordiamo le fotografie dell’ingresso dei soldati italiani nella città simbolo di quel martirio, ma pochi ricordano che per arrivare a quel giorno – oltre ai tanti morti degli scontri fra triestini ed inglesi dell’autunno del 1953 – ci fu anche un piano della Difesa che su ordine del primo ministro democratico-cristiano Giuseppe Pella predispose un progetto di riconquista di Trieste e della Zona A.  Un progetto che fece di Verona la prima retrovia.

Torniamo a quegli anni: l’Italia è Nazione sconfitta, così viene considerata e trattata al di là delle dichiarazioni di facciata. E’ stata collocata nel blocco occidentale e tanto ci deve bastare. In Corea USA e Cina combattono per estendere o limitare l’espansione comunista in Asia. Gli USA ritengono che in Europa la Jugoslavia del dittatore Josip Broz, Tito per i suoi, sia un argine contro Mosca – la saldatura perfetta con Turchia,  Grecia e Italia – e la riempiono di soldi, di armi e di amicizia. Così ogni volta che l’’Italia chiede di risolvere la questione di Trieste e dell’Istria, il macellaio  jugoslavo si trova sempre dalla parte di USA e Regno Unito che, in fondo, tutta questa voglia di dare un premio all’Italia non ce l’hanno. E’ un braccio di ferro che ci vede sempre in una posizione di debolezza. Alcide De Gasperi ci prova. Ma il suo governo cade e Giuseppe Pella decide di sparigliare un po’ le carte.

Sul confine orientale fra soldati italiani e jugoslavi le scaramucce non mancano. Tutti cercano di rubare le posizioni migliori in vista di un trattato di pace che prima o poi arriverà. Trieste è difesa da un velo di forze alleate. L’Esercito Italiano è però ancora leggero: battaglioni e reggimenti non sono al 100%; gli armamenti sono quelli lasciati da americani e inglesi, l’artiglieria ha pochi colpi in magazzino, i soldati iniziano a rimpiazzare il modello 91 col Garand, l’aviazione inizia ad operare coi primi jet, la marina non ha più grandi unità. Ma neppure Tito ha tutta questa gran forza: le soldataglie del partito, navi ex-italiane già prede belliche, unità carri insufficienti.

La catena di comando coinvolge il ministro della Difesa, Paolo Emilio Taviani, e il Capo di Stato Maggiore dell’Esercito, il generale Giuseppe Pizzorno. L’obiettivo è semplice: prendere Trieste. Un colpo di mano compiuto in pochissime ore per mettere in sicurezza la città e la Zona A: gli Alleati – si raccomanda il Governo – non dovranno essere toccati; gli jugoslavi non vanno inseguiti oltre il confine fra Zona A e Zona B.

Quel piano – lo racconta con ricchezza di particolari Fabrizio Castellano (colonnello carrista, è stato direttore del Servizio Archivio e Capo dell’Ufficio Storico dello Stato Maggiore Esercito) sulla rivista “Storia Militare” del gennaio 2004 –  coinvolse alla fine quasi 13mila soldati dall’ottobre al dicembre del 1953. La classe alle armi del 1931 non venne congedata a fine ferma sino alla conclusione della crisi. Dall’altro lato del confine vennero mobilitate formazioni pseudo-partigiane e  vennero bloccati i trasferimenti dei cittadini italiani fra la zona A e la zona B del Territorio di Trieste. Lo Stato Maggiore davanti alla richiesta studia il piano nei dettagli: coinvolge i suoi reparti d’élite (Lancieri di Novara e il Genova Cavalleria, che utilizzano i carri più recenti in dotazione); diversi reggimenti della Divisione Mantova e man mano che la situazione si fa più calda amplia il dispositivo con bersaglieri, paracadutisti, lagunari, carabinieri, la Marina e l’Aviazione. La logistica, tutta su ferrovia, diventa la protagonista assoluta. Vengono richiamati anche i partigiani democristiani della Osoppo, quella Gladio che poi si vorrà smantellare disconoscendo il suo valore, infiltrandoli nella città martire.

I vari reparti, a seconda dell’urgenza, si avvicinano e si allontanano dal confine. Gli alleati li controllano a vista, facendo finta di non capire a cosa serve tutto ‘sto schieramento; gli jugoslavi mettono in preallarme formazioni partigiane. Un pilota jugo diserta ad Aviano, due dei nostri scompaiono o disertano, in uno scontro a fuoco viene ucciso un soldato italiano ed altri catturati e poi rilasciati. L’aria è tesa, potrebbe succedere qualsiasi cosa. E Verona si trova, improvvisamente, in prima linea.

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A Villafranca sono di stanza il Terzo ed il Quinto Stormo. Entrambi stanno cambiando velivolo passando dai P47 Thunderbolt ai cacciabombardieri Republic F84G Thunderjet (nella foto , F84G in volo su Punta San Vigilio). Sono i più moderni del momento: in Corea combattono ogni giorno contro i Mig e li battono; li abbiamo noi e pure Tito. Al Terzo Stormo viene chiesta la ricognizione aerea, al Quinto (gruppi 101, 102 e 103) supporto tattico. Anche Montichiari è in questo schieramento con la Sesta aerobrigata. In tutto sono 200 velivoli da combattimento pronti a sostenere fanti e artiglieri.

Il diario dei Reparti è laconico: «In quell’anno, il 3° Stormo era in fase di passaggio velivoli, da F.51 a F-84, fu quindi impiegato in maggior parte del tempo in addestramento, nei mesi estivi ed autunnali partecipò ad esercitazioni, ma in Puglia (in zona Altamura). Lo troviamo operante, in realtà ufficialmente in esercitazioni, nella zona di Udine solo dal 20 gennaio 1955. Per quanto riguarda il 51° Stormo troviamo nella memoria storica del quarto trimestre l’impiego, il giorno 24 ottobre 1954, di “24 velivoli F-84 dell’Aerobrigata che sfilano su Trieste il giorno dell’ingresso delle truppe italiane» riporta a L’Adige l’ufficio Pubblica informazione dell’Aeronautica Militare. Nel 1953, per non restare scoperti, dalla Difesa spostano su Villafranca unità di artiglieria contraerea. Sarà anche un gioco di guerra, ma i reparti si muovono ogni giorno, e la tensione sale alle stelle.

A Trieste la popolazione chiede con forza di tornare all’Italia. Nilla Pizzi al Festival di  Sanremo pochi mesi prima ha vinto con una canzone dichiaratamente pro-TriesteVola colomba bianca, vola, dille che non sarà più sola..”. Pella (che ha visto gli ultimi risultati elettorali premiare MSI e monarchici) avvisa gli Anglo-Americani che vuole chiudere la partita Trieste, che non ha più pazienza: se non si definisce chiaramente la situazione, l’Italia non aderirà alla Comunità Europea di Difesa e non concederà il suolo italiano per le basi Nato (ad Aviano, a pochi chilometri da Trieste gli USA vogliono portare parte dell’arsenale nucleare…).

Il 4 novembre 1953 il premier Pella va a Redipuglia, a pochi chilometri dalla Trieste occupata, per ricordare la vittoria nella Prima Guerra Mondiale.  E’ accolto da migliaia di persone: è un segnale inequivocabile.  Nel tentativo di evitare un’escalation  – gli jugoslavi in quelle ore decidono di bloccare il confine tra le due zone A e B mentre centinaia di italiani scappano dalla Zona B – giunge un appello radiofonico alla calma fatto ai triestini dal Generale John Winterton, comandante del Governo Militare Alleato a Trieste. All’invito segue la carognata: il divieto di esporre il tricolore. Ma in quello  stesso giorno, sfidando il divieto di Winterton, l’architetto Gianni Bartoli, sindaco di Trieste, fa innalzare la bandiera italiana sulla torre comunale.  La rimozione della bandiera, il fermo di studenti che in piazza ne sventolavano altre, scatenò gli inglesi e iniziarono gli scontri che durarono giorni con migliaia di triestini in piazza. Gli inglesi sparano sulla folla: muoiono Pierino Addobbati, Francesco Paglia, Nardino Manzi, Erminio Bassa, Saverio Montano ed Antonio Zavadil. Altre 53 persone vengono ferite. Gli sgherri inseguono e percuotono i manifestanti fin dentro le chiese.

Ai funerali dei giovani uccisi partecipa una folla immensa. E’ uno scandalo che non può più esser fermato. Winterton viene richiamato a Londra d’urgenza e altrettanto velocemente si apre il tavolo delle trattative a Londra: iniziate a febbraio del 1954 si chiudono a maggio con un accordo che trova la quadratura del cerchio. Il 5 ottobre si firma il Memorandum: Trieste torna all’Italia.  Il 26 ottobre i bersaglieri sono i primi ad entrare in città mentre gli F84G  dell’Aeronautica militare partiti dalla base di Treviso sfrecciano nel cielo e in porto ormeggiano i cacciatorpediniere e gli incrociatori della Marina militare.

Giornate TS 2

Ricorderà  in seguito alla Camera, in aula, il missino Renzo de’ Vidovich, uno degli organizzatori dei moti del 1953: «Trieste è tornata all’Italia perché il 5 e il 6 novembre noi, gioventù nazionale, siamo scesi nelle piazze e abbiamo avuto sei morti e centocinquantatré feriti: Inglesi e americani ci hanno sparato addosso senza troppi complimenti. Non c’erano comunisti insieme a noi a combattere, non c’erano gli uomini di sinistra: eravamo solamente noi. Abbiamo sempre detto che con noi c’erano italiani di tutti i partiti, anche se poi, quando uno moriva, o veniva colpito, in tasca trovavano la tessera della Giovane Italia, della Goliardia Nazionale e del Movimento Sociale Italiano. Ma noi continuiamo a dire che in piazza c’erano tutti gli italiani, anche se avevamo la sfortuna di cadere solo noi.  Fummo noi che deliberatamente, sapendo che voi ci avreste negato quelle armi che pure avevate portato a Trieste ed erano dislocate in vari posti, facemmo la sortita contro il Governo militare alleato; fummo noi che determinammo con il sangue il ritorno di Trieste all’Italia. E se vi affrettaste a firmare il Memorandum d’intesa, fu perché vi avevamo dato un anno di tempo e il 26 ottobre era ormai vicino a quel 4 novembre in cui saremmo insorti. Lo dicemmo: io ero così ingenuo che ne feci addirittura un manifesto firmato. Dicemmo chiaramente che se i governi italiani non erano all’altezza della situazione  noi saremmo scesi in piazza, avremmo cacciato gli americani e gli inglesi – di cui volevamo essere alleati, non servi – e ci saremmo conquistati quella libertà nazionale che era il simbolo e la continuazione del Risorgimento». Sessantasei anni fa, l’Italia a Trieste ritrovava il suo onore.