(di Curzio Vivarelli) Mi riconosco per forza di cose nel genere passatista quando osservo i miei quadri e oltre questi getto uno sguardo su tutte le illustrazioni a colori o in chiaroscuro che ho disegnato per i libri di tanti venerabili autori. Ero e sono un “passatista” perché dipingevo e dipingo ancora con eclettismo scanzonato tanto quadri astratti quanto figurativi, metafisici o novecenteschi. Non mancano nella mia collezione aeropitture futuriste che avrebbero potuto partecipare (retroattivamente) ad un concorso degli anni ’30 del Novecento. Sono un “passatista” per il semplice fatto che ciò che dipingo non apre la via a qualche nuovo stile ma resta strettamente legato a tradizioni ormai acquisite dalla storia dell’arte. Tradizioni che tuttora sopravvivono ed hanno i loro valorosi epigoni. Il grande aerostato dell’avanguardia infatti si è sgonfiato e quei pochi illusi che tentano di rigonfiarlo non riescono nell’intento e lo sbrindellano in stracci.
Sopravvive con vigore un’espressionismo tedesco a tinte molto filosofiche come nelle opere di Anselm Kiefer, grande epigono in bilico fra visione astratta e figurazione del “concreto fantastico”, permeata di simboli tratti dalla storia delle religioni, oppure tratti dalla mitologia nordica, che reca inscritta un anelito al sacro che si esprime nel “medium” primigenio: la lingua aforistica e poetica, seguendo in ciò la tradizione dei “carmina” antichi.
Lo si vede nelle scritte calligrafiche, a volte abbastanza dissimulate come si conviene a delle frasi da non disperdere nella vacuità, che sono parte integrante delle sue opere, tanto su tela quanto su carta. Frasi composte in una lingua tedesca laconica ma proprio perciò eloquente nella sua asciuttezza: una di queste è Deutschlands Geisteshelden, ovvero “gli Eroi dello spirito tedesco” e sono scritti sul quadro pure i nomi di questi eroi sotto a fiaccole che ardono nella grande sala dalle capriate in legno, un autentico rinnovato Walhalla: Arnold Böcklin, Caspar Friedrich e Riccardo Wagner, e i poeti Theodor Storm, Nikolaus Lenau, Josef Weinheber, Adalbert Stifter e via di seguito.
Non manca fra questi eroi un artista dell’ultima avanguardia estrema, Josepf Beuys. La scuola tardo romantica, che trasmette un’eredità greco-romana unita al genio tedesco, si accompagna qui all’allegro epigono Beuys, gran maestro di scandali con l’uso pittorico e scultoreo del grasso e del feltro, e futurista forse suo malgrado dato che era stato aviatore sugli aeroplani Stuka in guerra.
Un’altra frase segnata su di un acquarello di Kiefer è questa: Dein goldenes Haar, Margarete e rinvia alla figura della Margherita goethiana la quale con il suo sacrificio salva Faust dalle grinfie di Mefistofele.
L’arte passatista proiettata al futuro
E si lega alla chiusa del grande poema tedesco che si pone entro la tradizione dei grandi poemi: Das ewige Weiblich zieht uns hinan, in una sorta di contrappunto all’Elena omerica: questa, di rifulgente splendore, fu la causa d’una tremenda guerra, quella, la mite oscura Margarete, ravvivata dal crine biondo salva Faust e agisce in guisa dell'”eterno femminino che ci trae in alto”. Chiara dunque l’evocazione di sacralità, di simbolo, di mito nell’opera postmoderna di Kiefer. La quale opera di recente si è volta al tema della montagna, dove un quadro reca sovrascritta una suggestiva frase in italiano mutuata dalle ultime parole che Giovanni Segantini disse prima di chiudere per sempre gli occhi:
Voglio vedere le mie montagne – für Giovanni Segantini ed è bella l’aggiunta di Kiefer separata dal Trennungstrich di nietzschiana memoria a guisa di dedica al grande di Arco. Le montagne dipinte ci riportano immediatamente all’Olimpo ellenico, al monte Meru vedico, al Fuji di Hiroshige e Hokusai, o, ancora, alle vedute himalayane di Nikolaj Roerich.
Se questa rinnovata attenzione al simbolo, al mito, alla sacralità possa avvenire attraverso l’arte, avviene innanzitutto per l’artiere il quale, avuta per vie mentali l’intuizione dell’opera, ovvero, seguendo la dottrina di Schopenhauer, essendosi in lui sospesa per un luminoso istante la soggezione all’oscura corrente della Volontà, vede, come in un lampo che illumina repentino tutto un paesaggio notturno, la Rappresentazione e la raffigura nella sua opera.
Già questo atto è un atto spirituale e quindi prossimo o di già entro i confini del sacro. Da questo sopravviene un gradito secondo miracolo: all’osservatore e contemplatore sensibile si disvela la possibilità d’intravvedere con i suoi occhi un mondo interno, immanente entro la semplice realtà nel quale le cose riassumono la loro valenza sacra, e gli atti tornano ad essere il rinnovamento di atti avvenuti ab aeterno.
Dov’è il punto di contatto, il motore primo che dalla distruzione dell’estetica romantica e dal sorgere del dinamismo futurista, della deformazione cubista, infine della pura astrazione e della pittura senza oggetti finisce per restaurare un canone classico? Io propendo alla riflessione di Nicolas Gomez Dàvila secondo la quale: “le Muse sono le figlie della Memoria e dell’Oblìo”.
Cosa poteva esser avvenuto? È vero il fatto che ad un certo punto il tardo sentimento romantico nell’arte iniziò a patire d’una putrescenza irreversibile e per sgombrar la strada dell’arte da questi miasmi soffocanti ai creatori più coraggiosi non restò che sovvertire, spesso con violenza inaudita di toni, l’opera che immediatamente li aveva preceduti. Con questo lavoro di distruzione, o di annientamento, i sovvertitori si fecero agenti dell’Oblìo che a tutti i costi, come una disinfezione medica o un diboscamento con gl’incendi doveva sgombrar il paesaggio dalla decadenza e dai suoi malanni infettivi.
Ma una volta effettuato questo, di fronte al vuoto, al deserto, ad un paesaggio, che trasposto in natura sarebbe stato solo minerale e fatto di sabbia e sassi, senza Flora, senza Fauna alcuna, ecco che per non precipitare in assurdità filosofiche dovevasi richiamare in soccorso la Memoria: e con i grandi sommovimenti distruggitori, una volta tornata la quiete sui campi sconvolti dalla tempesta, non è mai la Memoria recente a soccorrere ma quella lontana, portatrice di Aurora. Avviene così, per analogia, il transito dal sovvertimento compiuto per tramite del dinamismo futurista, del cubismo, e dell’astrattismo al recupero della sacralità nell’arte, la quale avvalesi pure del mito e della mai sopprimibile lingua dei simboli.
Questo recupero naturalmente non è un fatto automatico: è ed è stata bensì una possibilità attuabile, per i coraggiosi, per coloro che, in arte, appartengono, secondo un’altra sentenza di Gomez Dàvila alla posterità di Schopenhauer e non a quella di Hegel. A quest’ultima posterità resta la scuola, il cubismo senza più la scanzonata ironia ed autoironia di Picasso. Resta un futurismo scaduto nel dinamismo passatista e puerile, l’astrattismo concettoso e frammisto a testi illeggibili di teorie senza musica, desertiche, senza affetti.