(di Gianni Schicchi) Dopo otto anni torna nei programmi della Fondazione Arena al Filarmonico, “La Cenerentola di Rossini, ossia la bontà in trionfo”, nel collaudatissimo e raffinato allestimento del Maggio Fiorentino del 2017, con la regia di Manu Lalli, le semplici e mobili scenografie di Roberta Lazzari e i rigogliosi costumi di Gianna Poli. Un allestimento che tiene bene in evidenza le trasformazioni e il riscatto sociale insiti nella celeberrima fiaba di Perrault, uno dei miti più diffusi al mondo, anche se Rossini e il suo librettista Ferretti hanno eliminato dal racconto qualsiasi implicazione magica e fiabesca.
I due scelgono infatti La Cenerentola perché le autorità ecclesiastiche del tempo censurano il libretto dell’opera che doveva essere scritto. Ma Rossini da parte sua non rinuncia ad usare, come sempre, la musica quale diversivo, nascondendo dentro le note temi tutt’altro che leggeri come suggerirebbe la storia. Cenerentola, infatti, è certo una fiaba (e in questa versione di Lalli le suggestioni narrative sono mantenute quasi per intero), ma è anche molto di più.
Rossini scrive ovviamente come uomo del suo tempo e pur senza una dichiarata intenzione edificante, risponde al sentire comune in cui vive e lavora. La sua Cenerentola è la storia del desiderio di un riscatto sociale che in quel momento storico l’Italia sta vivendo. Un desiderio di libertà, ma più ancora di rivendicazione dei diritti, che in tutto il paese, come in casa del cattivo patrigno di Angelina (Cenerentola), sono stati repressi dalla stupidità e dall’ignoranza.
Le malvagie sorelle e il tremendo Don Magnifico padre (che fa ridere proprio a causa della sua immensa stupidità) sono gretti, incivili, ignoranti, strappano pagine dai libri che Cenerentola conserva nella biblioteca della madre: libri di un passato fatto di lettere e poesia che alimentano i suoi sogni, le sue aspettative, la sua bontà.
Tutti argomenti che la lineare regia di Manu Lalli tiene in grande evidenza, come le fate, che guidate dal saggio Alidoro aiutano Angelina con la loro magia, ma scompariranno dalla sua vita (faranno proprio “fagotto” attraversando la platea del Filarmonico) quando smetterà di crederci. Il matrimonio che ella ottiene, disinteressato e basato sull’amore, è il frutto della sua bontà, della sua intelligenza e la renderà finalmente adulta. L’ingresso nel “principio di realtà” fa scomparire la magia ed è solo allora che Cenerentola si rende conto che non è stata la presenza della fata a renderla libera e amata, ma la sua bontà, la sua virtù e la non scontata e mai istintiva, capacità di perdonare.
In palcoscenico la compagnia di canto è andata “sul velluto” con la direzione di Francesco Lanzillotta, una presenza già molto apprezzata in altre stagioni veronesi. Il direttore romano non si è lasciato condizionare dalla complessità della partitura e ha condotto con grande competenza, mettendo sapientemente in evidenza il marchingegno contrappuntistico che pervade l’opera, esaltandone quindi le caratteristiche concertanti. L’Orchestra areniana ha così bene assecondato l’azione scenica, facendo assaporare in molti passaggi il genuino, sapido impasto di cui è fatta la partitura rossiniana.
La parte della protagonista Angelina è vocalmente impegnativa, nel richiedere una coloratura agile e un grande controllo anche del registro grave. Viene sostenuta dalla bellissima russa Maria Kataeva, uno dei mezzosoprani oggi più affermati sulla scena internazionale, dall’ottima tecnica rossiniana. Una voce smagliante, da vero mezzosoprano, che è il mezzo poi pensato dal compositore. Il risultato ottenuto è davvero ragguardevole, specie nell’aria finale “Nacqui all’affanno, al pianto” che il pubblico ripaga con grandi ovazioni.
Scenicamente entusiasmante è stato Carlo Lepore, un Don Magnifico di grande charme, con una recitazione genuinamente comica. Già la sua presenza fisica offre un impatto scenico notevole: ma ciò che lo rende protagonista della serata è soprattutto la qualità e la sicurezza del canto che lo fanno risaltare nel panorama dei bassi buffi, per quel tocco di profondità, di bravura che una volta si sarebbe definito “sprezzatura”. Fin dall’inizio con “Miei rampolli femminini” l’interpretazione è sempre sul filo di una studiata autoironia, che rende la sua performance piena di fascino e di verve.
Di spessore anche la prova di Pietro Adaini, perfettamente a suo agio nel collaudatissimo ruolo di don Ramiro, scattante nei passaggi più agili e intenso nel fraseggio, ma anche in grado di distribuire centro ed equilibrio ai numerosi e complicati brani d’assieme. Alessandro Luongo, ormai di casa a Verona, si è distinto per verve e vivaci arguzie nelle vesti di Dandini, capace di catturare il pubblico senza mai scadere nel facile esibizionismo o nell’eccesso di teatralità. Anche nei momenti più brillanti mantiene una compostezza di interpretazione che evitano al suo Dandini le trappole di un facile cliché.
Le due sorellastre, Clorinda di Daniela Coppiello e Tisbe di Valeria Girardello, sono state molto professionali e affidabili nei loro ruoli niente affatto scontati, con Matteo D’Apolito (accompagnato da una simpatica giovanissima fata nella scena del temporale) assolutamente convincente nel ruolo di Alidoro: un vero deus ex machina della vicenda.
Il Coro areniano, preparato da Roberto Gabbiani si è mostrato, ancora una volta all’altezza delle sue migliori performance, abilissimo poi nello svolgere il suo ruolo di sostegno alla splendida squadra di mimi e fate. Teatro molto affollato, anche di piccoli spettatori, che ha accolto lo spettacolo con calorosissimi consensi. (Gianni Schicchi)