(di Gianni Schicchi) La Fondazione Arena, nel secondo appuntamento della sua stagione sinfonica, ha voluto ricordare quel tormentato compositore che fu Dmitri Sostakovic, a cinquant’anni dalla scomparsa. Gli ha quindi dedicato un concerto che ne sapesse confermare la grande genialità e l’indiscussa abilità di acclamato interprete della rivoluzione bolscevica, in un contesto culturale dominato dal fervore e dagli entusiasmi per le avanguardie.
Niente di meglio che proporre allora due sue opere quanto meno enigmatiche, come il Secondo Concerto in sol per violoncello e la Quindicesima Sinfonia in la maggiore, il lavoro conclusivo della sua contrastata carriera. Il tutto potendo poi contare sull’apporto di un giovanissimo e già acclamato solista come il romano Ettore Pagano al violoncello e della bacchetta del russo Dmitri Jurowky, che dopo nove anni ritornava sul podio del Filarmonico.
Ettore Pagano, oggi appena ventiduenne, ha un trascorso veronese che ne ha evidenziato lo straordinario già sei anni fa quando vinse a mani basse il X Concorso Salieri di Legnago sbaragliando tutti gli avversari. Il presidente di giuria – era il violinista Alberto Martini – lo volle subito in un concerto con I Virtuosi Italiani a San Pietro in Monastero che confermò le sue spettacolari doti esecutive. “Il suo virtuosismo stellare e al contempo viscerale, quasi selvaggio…” e “La naturalezza quasi ovvia, spontanea, sorgiva, con cui risolve anche i più complicati passaggi del concerto è qualcosa di ammutolente”: sono due commenti di note riviste specializzate che ne hanno seguito l’evoluzione artistica degli ultimi anni.
Commenti che vorremmo confermare anche noi, dopo averlo ascoltato nel Secondo Concerto per violoncello. Un concerto che può sembrare un lavoro sbiadito, decisamente inferiore al Primo e di una certa esiguità inventiva che risalta rispetto alla notevole durata. Ma del quale Pagano ne ha saputo mettere in perfetto rilievo l’equilibrio solista-orchestra e il campionario fantasioso di abbinamenti strumentali che rendono invece il concerto, un lavoro di notevole interesse, nella sua natura ombrosa e ambigua.
Ể stato il suo violoncello a rappresentare la forza propulsiva dell’intera pagina, pur non apparendo come un protagonista assoluto, data la fitta impostazione dialogica con i singoli strumenti dell’orchestra. Un approccio, il suo, che ha catturato perché sempre vario nel fraseggio, sempre cangiante nell’inseguire i diversi stati emozionali della partitura, talvolta resi senza pudore: un filtro attraverso il quale ha guardato alla musica.
Successo strepitoso al termine con consensi vistosi del pubblico che è stato ripagato da ben tre bis (l’ultimo con Bach). La ripresa della serata è stata completata dalla Quindicesima Sinfonia: un distillato di memorie espresso dentro un’ambigua veste strumentale, senza testi e senza programma; una fiaba sospinta dal soffio leggero dei ricordi, divenuti teneri oggetti di un capriccio senile. Tra i diversi temi trattati, vi è quello dell’illusione necessaria per affrontare la morte serenamente, ma l’andamento dell’opera può essere desunto dalla regolarità dei tempi: tre Allegretti intercalati da due Adagi.
Le due citazioni più vistose sono quelle della Sinfonia dal Guglielmo Tell di Rossini e del leitmotiv “l’enigma del destino” dalla Tetralogia wagneriana. Ma la simbologia musicale in quest’opera è molto più complessa. Ể un ampio mosaico di ombre e citazioni diluite in una lingua impalpabile e calligrafica.
Quest’opera conclude in modo luminoso e illuminante il ciclo sinfonico di Sostakovic, che rivede ora la propria storia con il distacco degli ultimi anni sentendo la morte ormai imminente. Gli sberleffi, i lamenti funebri, la vicenda del suo stile e del suo paese, sono riflessi come in uno specchio magico di cristallo che trasforma tutto in una catena di simboli. Anche la divaricazione fra le opposte tendenze della sua poetica – il comico e il funebre – è svolta in forma di doppia citazione: Rossini-Wagner. Lui pare lì a guardare e commentare con “sublime prosa d’arte, la vita e l’opera di un altro che non è più”.
La direzione di Dmitri Jurowski è di ottima qualità: la bacchetta russa (ora vive in Germania) presta la massima attenzione a tutte le indicazioni in partitura, concedendosi pochissime libertà, ma non calcando la mano sull’aspetto grottesco, d’altronde qui secondario.
Ne risulta una lettura sobria eppure intensa, persino consolatoria nei momenti di ipnosi del dolore. L’orchestra areniana lo segue con una consistente prestazione, segno del notevole grado di forma raggiunto, dove gli innesti di nuove leve, operati negli ultimi mesi, svolgono un ruolo determinante anche fra gli strumentini e gli ottoni. Bene pure il comparto degli archi, fra cui Jurowski ha additato l’intervento del primo violoncello di Sara Airoldi nell’inizio del secondo tempo. Direttore e orchestra fatti segno a numerose chiamate al termine da parte di una sala molto affollata.