(di Gianni Schicchi) Il Ballo in maschera di Verdi chiude bene la stagione operistica 2023, nella chiara regia di Marina Bianchi, con le scene dipinte di Giuseppe Carmignani, che riprendono lo storico allestimento (1913) del Teatro Regio di Parma. L’operazione di restauro viene illustrata con un video durante il Preludio per poi, allo schiudersi del sipario, mostrarsi in tutta la sua bellezza attraverso la splendida tridimensionalità dei fondali dipinti da Carmignani.

Alla felice realizzazione dell’opera hanno contribuito pure il prezioso coordinamento dello spazio di Leila Fteita, i coloritissimi costumi di Lorena Marin, con le luci di Andrea Borelli. L’ultimo impegno operistico della Fondazione Arena si muove con una ambientazione che risale all’epoca voluta da Verdi (il Seicento), senza nessun stravolgimento a cui siamo abituati ormai da alcune “innovative” regie dei nostri giorni.

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Sappiamo che l’opera subì gli strali della censura per via dello scottante argomento trattato dal libretto di Antonio Somma: il regicidio di un monarca (Gustavo III di Svezia) che non si prestava ad uno spettacolo musicale. Di conseguenza i personaggi furono costretti dalla censura a cambiare epoca, passando dalla Svezia al Massachusettes, dove Gustavo III divenne Riccardo conte di Warwich, governatore di Boston. Verdi accettò la soluzione americana e anche quando si presentò la possibilità di tornare all’ambientazione originaria non lo ritenne necessario, forte del suo credo nelle dimensioni di provincia, dove i personaggi aumentano di statura.

Così era raggiunto anche il suo scopo: rappresentare la figura giusta del potente magnanimo che si intonava ai suoi ideali politici, in quel momento orientati verso la monarchia sabauda.

La musica però non subì alcun disagio, anzi le zone più cupe e sinistre, i languori, la sensualità, il furore e lo scherno sembrarono più naturali, a contrasto con le frivolezze. Quanto al dolore, trovò uno sfogo spontaneo, come tutte le manifestazioni che rinunciano all’etichetta di corte. Col tempo la partitura anzi acquistò un credito grandissimo fra gli esegeti.

Il libretto rimase invece sotto accusa, ma l’esaltazione verbale non era affatto stramba, semmai ricercata e barocca, ma per colpire quella storia di adulterio, che splende nelle tenebre e alimenta i sogni del peccato, o ci si sforza di alimentarla, o succede come quando un fuoco non resta acceso. Ể il testo giusto semmai, che occorreva per consacrare un amore colpevole e riportarlo ad una purezza verginale. Se poi si considera che l’idillio si svolge in un ambiente puritano e provinciale, non possiamo che trovare adatte le parole ingenue e terribili di Somma, che sembrano fatte apposta per suscitare il sogghigno di uomini corrotti, limitati e freddi, come i personaggi di Tom e Samuel.            

Per venire all’esecuzione (abbiamo assistito alla penultima recita di venerdì 22), il direttore Francesco Ivan Ciampa ha complessivamente convinto alla guida di un’orchestra areniana in buona forma, anche nei suoi soli, con cui ha cercato – e talvolta trovato – ricchezza di colori e di dinamiche, la cui gradazione è stata curata con attenzione, come è parso evidente nella scena finale, in quel meraviglioso “lamento” su Riccardo morente (“Cor si grande e generoso”) partito da un sussurro impalpabile per finire con una potenza retorica davvero intensa. Ottimo, poi, l’equilibrio tra le parti più comiche e leggere dell’opera e quelle impetuosamente drammatiche che vedevano un’esecuzione splendida del Preludio “all’orrido campo”.

Anche il cast era probabilmente uno dei migliori che si potesse presentare, con uno spigliato Luciano Ganci che ha mostrato di saper davvero cantare in quel Riccardo che è probabilmente uno dei suoi ruoli di elezione, alla cui perfetta riuscita hanno concorso una voce di bellissimo colore ed un rispetto minuzioso della scrittura verdiana che non limita, ma anzi esalta, la fantasia del fraseggio e l’eloquenza dell’accento, che trovano il loro vertice nell’incandescente esecuzione del grande duetto con Amelia, uno dei più intensi duetti dell’opera verdiana.

Daria Masiero – riprendeva Maria José Siri, artefice delle due prime recite – ha mostrato una voce gradevole che libera bene la propria emissione nei centri e in basso, meno in alto, dove è avvertibile un certo affaticamento. Una Amelia, dolente più che innamorata, tuttavia con un buon controllo delle dinamiche in tutta la tessitura. Simone Piazzola è una garanzia assoluta, per l’incisività del canto, che ha disegnato la sua aria “Eri tu” con autorità ed un piglio stentoreo ragguardevole convincendo pienamente il pubblico di casa. Anna Maria Chiuri, ha indossato i panni della maga Ulrica, con intensità ed efficacia, senza eccessi grotteschi e anzi con una buona dizione.

La giovane albanese Enkeleda Kamani (già indimenticabile Despina nel Così fan tutte di due anni fa) ha vestito un Oscar (il doppio di Riccardo, il simbolo della frivolezza) incisivo nel fraseggio e soprattutto teatralmente convincente. Nella fasi finali, ma anche durante tutta l’opera, è stata la vincitrice della scena con grandi e prolungate ovazioni del pubblico.

Comprimari all’altezza, con gli ottimi Fabio Previati (Silvano) e Romano Dal Zovo (Samuel), il Tom di Nicolò Donini, il giudice di Salvatore Schiano Di Cola. Coro sempre all’altezza per l’esperta guida di Roberto Gabbiani. Serata affollata e pubblico prodigo di applausi, soprattutto alla splendida scena conclusiva del palazzo del governatore di Boston.