(di Gianni Schicchi) Proporre il Don Giovanni di Mozart in forma semiscenica, dopo 25 anni di assenza da Verona (la prima volta, 1999 Accademia Filarmonica al suo ottavo Settembre), è certamente un’operazione meritoria che il Teatro Ristori ha intrapreso proprio nel mese di gennaio dedicato alla rassegna “Mozart a Verona”. Proporlo poi in due date ravvicinate (la seconda è per sabato 27) lo è ancora di più, perché dà la possibilità ad un maggior numero di spettatori di essere gustato.
Da un Don Giovanni in forma semiscenica non ci si poteva aspettare molto, magari con mezzi già visti e rivisti che non lasciano nulla all’immaginazione e non aggiungono né tolgono niente all’avvicendarsi dei fatti, dove il sentimento e la profondità dei personaggi non riescono mai ad emergere, né tantomeno a coinvolgere. Ma lo spettacolo che il regista Gianmaria Aliverta ha ideato per il Ristori è invece un’operazione molto intelligente, che riesce ad utilizzare il teatro come un grande contenitore, in cui i cantanti sono messi a nudo e costretti ad entrare nel proprio personaggio.
Un allestimento di un’attualità astratta, ma molto vicina a noi – coadiuvata dagli eleganti e indovinati costumi di Sara Marcucci – che rispetta alla lettera la trama scritta da Da Ponte. Quindi nessun stravolgimento dell’opera come ci abituano ormai alcune regie avanguardistiche dei nostri giorni, ma opera che si gioca poi tutta sulla parte attoriale, in cui l’orchestra le fa da traino vitale. In tale operazione i cantanti infatti non sono mai lasciati soli a loro stessi – anche se la direzione è costretta a dargli le spalle – ma esprimono la drammaturgia più idonea secondo le proprie intrinseche caratteristiche, grazie al prezioso sforzo di regia compiuto da Gianmaria Aliverta.
La direzione di Massimo Raccanelli – alla guida dell’ottima Frau Musika e del Coro Andrea Palladio preparato da Enrico Zanovello – ha avuto il grande pregio di non essere mai lasciata al caso e di aver perseguito il risultato di concepire ogni nota nell’armonia generale, evidenziando bene le intemperanze e i dubbi di quanto Mozart sta mettendo in scena e i tormenti espressi da Da Ponte, in un libretto che trasuda emozioni e dubbi, spesso atavici, dell’uomo al cospetto con l’immateriale, con l’onnipotenza della visione mistica.
Ottime poi le voci, ben scelte e distribuite, capace di rivelare un’idea concreta e forte. Molto vi ha contribuito la voce di Lodovico Filippo Ravizza, un Don Giovanni compiuto – veste un pastrano da generale con tanto di alamari – che anche vocalmente cerca di esprimere le sue incertezze e le sue ambiguità con un canto espressivo che include certe ricercatezze nobili e positive, anche se non formalmente incluse nel ruolo. Ể bravissimo a definire col suo canto la personalità egocentrica, pur non narcisistica del cavaliere, che va diritto per la sua strada e non si lascia coinvolgere da alcuna visione sovrannaturale, pur sapendo che un giorno vicino dovrà farci i conti.
Ottimo per la gestione del ruolo e con caratteristiche vocali idonee per la sintonia con Ravizza, il Leporello di Marco Filippo Romano, un servo che si sottopone a tutte le angustie cui Don Giovanni lo comanda e che ne fa il doppio perfetto, allo scambio dei costumi, con ironica ma malcelata invidia. Romano propone un Leporello essenziale, privo di macchiettismo e dotato vocalmente, in grado di portare a termine una prova maiuscola, risultando l’interprete vincente della serata (un vero capolavoro il suo “Madamina il catalogo è questo”). Per questo il pubblico lo festeggia al termine con una prolungata ovazione.
La Donna Elvira di Valentina Mastrangelo è la voce che più ci ha incuriosito, per lo spessore drammatico e di volume (suntuoso quel “Ah! Che mi dici mai”) che trova alcune resistenze nella zona più grave della tessitura, ma è eccellente la sua prova complessiva. Del Masetto di Giovanni Luca Failla c’è da sottolineare il bel timbro di voce e la semplicità giovanile dei suoi interventi attoriali che fanno presagire uno sviluppo ulteriore e positivo.
Georgia Tryfona è stata la sua innamorata Zerlina, una compagna ammirevole per presenza scenica, pur esprimendo un canto un po’ angolare, pregevole però per intenzioni e modulazioni. Il Don Ottavio, del celebre tenore Julian Pregardiern ha un timbro non bellissimo, ma dotato di acuti sicuri e sonori, fraseggia (da manuale l’aria “Il mio tesoro”) con una certa facilità e si attesta come uno dei migliori Don Ottavio oggi in circolazione.
Eccoci anche a Donna Anna di Caterina Marchesini, un soprano in grado di offrire un personaggio molto più scavato (“Non mi dir, bell’idolo mio”) di quanto le sue doti belcantistiche farebbero supporre. Fa ogni coloratura prevista e definisce il suo personaggio con la grazia e l’eleganza con cui Mozart la descrive, ma sa dargli in più quel carattere un po’ misandrico che le attribuisce interesse e fascino. Infine il Commendatore del basso Renzo Ran, che ha mostrato un timbro oscuro e tonante, ma una dizione un po’ arruffata.
Il pubblico numerosissimo (sfiorato l’esaurito) ha apprezzato moltissimo l’edizione dell’opera, che per la prima volta veniva data in versione semiscenica al Ristori, sottolineando con grandi ovazioni i momenti musicali più noti. Successo indiscusso.