(di Matilde Anghinoni) In un’Europa frammentata, tra guerre vicine e lontane, idee impolverate e nuovi protagonisti nel panorama internazionale, c’è qualcuno che scommette su un progetto che ha posto i suoi semi ormai decenni fa. La discussione sugli Stati Uniti d’Europa diventa così il punto di partenza della campagna elettorale di Italia Viva a Verona in vista delle amministrative e delle europee di giugno.
All’incontro, dal titolo “StatEUniti: Un’idea di futuro, gli Stati Uniti d’Europa”, hanno partecipato Enrico Borghi, capogruppo di Italia Viva al Senato e membro del Copasir (il comitato parlamentare che vigila sull’operato dei servizi di sicurezza), la senatrice Daniela Sbrollini, il presidente regionale di Italia Viva Davide Bendinelli, il prof. Giorgio Anselmi, segretario provinciale del Movimento Federalista Europeo, e il coordinatore del comitato Europa di Verona, Paolo Cesare Magno.
A moderare il direttore de L’Adige Stefano Tenedini, che ha introdotto l’incontro partendo dall’ultima pubblicazione di Matteo Renzi, “Palla al centro”. Nel libro il leader di IV ricorda l’importanza dei padri fondatori per aver contribuito a garantire quasi 80 anni di pace al continente, ma anche la crescente necessità di dare loro il cambio della guardia contando sull’entusiasmo dei figli “sognatori”.
«Per me l’avvio concreto dell’Europa, percepito dalla popolazione all’inizio degli anni Settanta, è stato come lo sbarco sulla Luna”, ha sottolineato il direttore. “Quella che all’inizio era una forma di “mobilità sostenibile” oltre le frontiere si è trasformata in un’idea concreta. Ma poi abbiamo messo da parte il sogno e oggi ci troviamo di fronte a una questione che non è solo economica, ma sociale, politica, di sicurezza e di rapporti con il resto del mondo».
Le ragioni per unirsi di più: geopolitica, sicurezza e transizione economica
Secondo Borghi sono diversi gli aspetti salienti, ma al contempo estremamente pragmatici, che possono coniugare idealità e realismo. «Innanzitutto la questione geopolitica. Servono gli Stati Uniti d’Europa, altrimenti nel resto del mondo noi non ci siamo. Come facciamo a stare al passo della competitività globale in un contesto di 27 Paesi che si fanno lo sgambetto a vicenda e utilizzano il diritto di veto per giocare al rialzo?». E proprio a questo proposito Borghi cita la guerra in Ucraina, lo sviluppo dell’India, ma anche l’Oriente, con la Repubblica Popolare Cinese che dichiara di voler diventare la prima potenza mondiale.
«Proprio come gli Stati Uniti del ‘900, il dragone non nasconde i suoi obiettivi”, conferma il senatore di Italia Viva. “Ma la domanda che dobbiamo porci è se questa dinamica porterà o meno a un evento bellico: siamo nello stesso scenario che il mondo ha già vissuto a metà Novecento, con la Seconda Guerra Mondiale che è stata seguita dal passaggio della leadership globale dall’impero britannico, ormai impoverito, agli Stati Uniti».
C’è poi la questione sicurezza: «Gli Stati Uniti hanno assolto la funzione del poliziotto per conto nostro. Oggi in Europa ci sono 70 mila militari americani: ed è ragionevole attendersi che prima o poi le madri e i padri statunitensi decideranno che si sono stancati di mandare a morire i loro figli per noi». Quindi secondo Borghi è arrivato il momento di diventare più indipendenti di adesso, perché se l’Europa vuole difendere i propri valori, deve imparare a cavarsela da sola, o almeno a fare la propria parte.
Da non trascurabile, inoltre, la necessità di una transizione economica davvero sostenibile. A questo proposito Borghi ricorda uno dei cambiamenti più significativi degli ultimi 50 anni: siamo passati da una società povera e popolosa, che aveva bisogno di pochi servizi, a una ricca, caratterizzata da un forte calo demografico e una grande necessità di servizi.
«Dobbiamo passare dall’era del Welfare State all’era della Welfare Society», ovvero un contesto nel quale i soggetti della società civile hanno maggiore controllo in materia di mantenimento del benessere della popolazione. E aggiunge: «La crescita e l’efficienza economica devono andare di pari passo con la giustizia sociale, ma io negli ultimi anni ho visto un grande squilibrio, con uno Stato che punta più che altro ai superbonus facendo il Robin Hood al contrario».
Esercito europeo: i nodi sono il costo, chi comanda e una UE più “agile”
Una struttura militare europea esiste già (anche se allo stato embrionale) e si ispira a quella della NATO, nonostante sia molto ridotta sia in termini numerici che per attività operative. È rappresentata dall’EUMS (European Military Staff) che svolge un coordinamento interforze ed è “consulente militare” della UE. Risponde all’EEAS, la struttura dell’Alto rappresentante UE per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza, e le è affidato il mantenimento della pace in alcuni teatri di crisi come Balcani o centro Africa.
Inoltre c’è Il Comitato militare dell’Unione europea, EUMC, un dipartimento coordinato dai capi di Stato maggiore della UE, e infine Eurocorps, una forza multinazionale subordinata al comando NATO in Europa che conta reparti operativi e ufficiali di Stato maggiore (provenienti anche dall’Italia).
Ma se il quadro appare definito, «il punto è che per raggiungere l’obiettivo di un esercito unico europeo c’è bisogno di spingere perché le realtà nazionali si consorzino”, chiarisce Paolo Cesare Magno, che è stato per quattro anni rappresentate militare italiano proprio in Euroorps. “Le industrie europee della difesa sono fortissime, ma allo stesso tempo deboli non solo perché sono presenti sul panorama internazionale individualmente, ma anche perché spesso sono addirittura in competizione tra loro. Lo conferma anche l’AD e DG di Leonardo Roberto Cingolani: il primo passo è investire nella ricerca e nello sviluppo comunitario del settore, anche utilizzando i bond europei».
Ma quanto si spende per la difesa? In ordine, riporta Magno, “i Paesi NATO che puntano di più sulla difesa, investendo maggiori percentuali in proporzione al Pil, sono Polonia, Stati Uniti, Grecia, Estonia, Lituania, Finlandia, Grecia, Romania, Ungheria, Lituania, Regno Unito e Slovacchia. Questi spendono tra il 2% e il 4% del Pil nel settore della difesa. L’Italia, invece, ha un tasso d’investimento dell’1,46%, collocandosi al 24° posto nell’Alleanza Atlantica. Sul piano europeo le spese militari combinate tra tutti i paesi sono circa 240 miliardi l’anno. Gli Stati Uniti investono 800 miliardi, la Cina 273 miliardi e la Russia 92 miliardi. Va da sé che se riuscissimo a combinare le spese la situazione sarebbe diversa», conclude Magno.
Tra le opposizioni e le critiche agli investimenti nella difesa spiccano la filosofia pacifista e, in particolare, l’idea di neutralità disarmata. «Ma neutralità disarmata significa non saper difendere la propria libertà. E i popoli che non sanno difendere la loro libertà prima o poi la perdono», spiega il prof. Giorgio Anselmi. «Per questo motivo è necessario un esercito unico europeo. Non bisogna però pensare che la sua creazione sia un processo veloce e facile: e a dirlo è stato lo stesso Mario Draghi”.
“Innanzitutto c’è la questione di chi lo dovrebbe comandare. Poi, ma non meno importante, pensiamo davvero che uno Stato che ha votato contro la creazione di un esercito unico sia disposto a mandare i propri cittadini in guerra per un altro Paese? Perché la differenza tra difesa comune ed esercito comune è sostanziale». La risposta, quindi, per Anselmi, è la riforma sostanziale dell’intera Unione Europea, che deve essere più agile e avere maggiore spazio di azione e capacità di gestire il bilancio.