(Di Gianni Schicchi) La Messa di Gloria di Rossini approda per la prima volta al Teatro Filarmonico. Inserirla nella stagione sinfonica 2023 della Fondazione Arena è una scelta meritoria perché permette al pubblico di allargare il panorama sacro del musicista pesarese, ancorata da anni, e pressoché esclusivamente, allo Stabat Mater ed alla Petite Messe Solennelle.
La Messa di Gloria di Rossini fu battezzata a Napoli il 24 marzo 1820 e va dunque ascritta alla maturità dell’autore. Un pezzo che stenta tuttavia a trovare spazio nel repertorio. Da una parte per le sue difficoltà che presenta ai solisti, in particolare al tenore, ma anche agli strumenti concertanti. Dall’altra parte per il carattere controverso della sua ispirazione religiosa. È pur vero che la forma scelta dal compositore – una messa breve composta dai soli Kyrie e Gloria – esclude i momenti più introspettivi dell’Ordinario, in particolare del Credo, giustificando la prevalenza di un carattere esuberante ed esultante.
Alla sensibilità odierna, tuttavia, non può che suscitare qualche perplessità incontrare lungo tutta la Messa, gestualità, strutture, autocitazioni, calate pari pari dall’opera buffa rossiniana, con qualche momento che rischia anche una comicità involontaria, come i melismi del tenore su Miserere nel Qui tollis; l’unica parte “ortodossa” della Messa, la fuga del finale Cum Sancto Spiritu, è stata scritta peraltro con l’aiuto, e forse qualcosa d’altro in più, dal collega romano Pietro Raimondi. Non tutti dunque riescono ad abbandonarsi senza riserve all’indubitabile bellezza di molte pagine della Messa.
Ma tralasciando altre considerazioni sull’opera in sé, va subito chiarito che la direzione di Francesco Ommassini è stata di un buon livello, con l’ottima collaborazione dell’intera orchestra areniana. Il direttore veneziano affronta di petto le radici operistiche della Messa, fornendone una lettura entusiastica, brillante, di una certa elasticità, che sa sfruttare al meglio le qualità di complessi pienamente idiomatici, di cui vano lodati i solisti concertanti Francesco Pomini al corno inglese (Gratias agimus tibi) e Lorenzo Paini al clarinetto (Quoniam tu solus Sanctus). La visione di Ommassini si pone dunque agli antipodi di altre versioni della Messa, di solito piuttosto cameristiche, e può avvalersi poi di un quintetto di cantanti molto coerente e pienamente all’altezza.
Il soprano valenciano Marina Monzò non ha infatti pari per la cremosità del timbro, il calore del fraseggio e l’agilità vocale nel Laudamus te; il suo ingresso a Domine fili nel Dominus Deus risulta davvero angelico. A due differenti tenori, del resto necessari per il Christe, sono affidati il lirico ma spinoso Gratias e il pirotecnico Qui tollis. Nel primo Matteo Roma dispiega tutta la provata idiomaticità del suo canto e lo sfolgorio del registro acuto, intrecciando col corno inglese un empatico colloquio; il Qui tollis, numero davvero proibitivo, viene affrontato invece da Dmitri Korchak (protagonista del recente Werther) con la consueta spavalderia e bravura, adottando per la ripresa della cabaletta Qui sedes variazioni encomiabili e ragguardevoli per luminosità ed eloquenza.
Nel Quoniam, Ommassini può schierare anche il georgiano Giorgi Monoshvil, basso imponente che mette in campo un timbro considerevole, nella prima ottava. Voce anche profonda che può aspirare tranquillamente alla scena areniana. Il contralto Chiara Tirotta, infine è la voce meno gratificata nella partitura rossiniana, ma attacca espressivamente il Domine Deus ed è assolutamente all’altezza della parte. Ottima l’intervento del coro, preparato dal maestro Ulisse Trabacchin. Successo vistoso della serata completato col bis del Gloria.