(Di Gianni Schicchi) “Considero Rigoletto un’opera impetuosa, capace di esaltar passione e amore, vendetta e potere”. Così si è espresso Antonio Albanese, alla presentazione della sua prima esperienza da regista in Arena. Il famoso attore, comico, cabarettista, scrittore lecchese ha mostrato di conoscere profondamente l’operazione drammaturgica molto cara a Verdi, la riduzione della storia al piano di una realtà più ristretta, dove le figure stanno accalcate a forza, dentro uno spazio sacrificato, persino irreale. Ể l’occasione attesa per sentirli quasi respirare a contatto, di spogliarli dell’inutile sovrastruttura delle cariche e aprire con loro un dialogo umano, ma con una assoluta libertà fantastica.
Forse anche per tutto ciò ha voluto ambientare il “suo Rigoletto” nella campagna del Polesine degli anni Cinquanta, omaggiando nel contempo il grande cinema neorealista di quell’epoca (in scena anche una veloce proiezione di “Bellissima” con Anna Magnani), caratterizzato da trame dislocate fra le classi più disagiate che trattano le situazioni economiche e morali del dopoguerra italiano, di povertà, di frustrazione e che riflettono i cambiamenti dei sentimenti, le condizioni di vita, di speranza, riscatto, desiderio di lasciarsi alle spalle il passato. Anche i ruoli minori di questo Rigoletto possono essere presi da esempio per sottolineare come rientrino in un piano che li enfatizza e li tiene legati insieme l’uno l’altro.
Nella sua trasposizione del dramma, mai trasgressiva e provocatoria, si è fatto aiutare dalle scenografie di Juan Guillermo Nova, che ha costruito tre ambienti dimessi – fra cui una vecchia trattoria di campagna in sostituzione della dimora ducale – azionati attraverso un palcoscenico rotante, non sempre pienamente funzionante (si è pure bloccato costringendo l’interruzione dell’opera per qualche minuto), segno che l’allestimento non era stato sufficientemente collaudato e ancora bisognoso di altre messe a punto.
Questo Rigoletto dal punto di vista strettamente musicale dispone però di alcuni atout di pregio. Nel ruolo del titolo, Roman Burdenko minia il fraseggio con una cura ed un livello di dettaglio davvero artigianali, illuminando letteralmente ogni singola parola e lasciando da parte gigionismi obsoleti che pure si potrebbero permettere considerate la grana e la proiezione della voce. Il rischio di una eccessiva affettazione è generalmente evitato e la varietà degli accenti – grazie ad una vocalità sempre solida e tecnicamente irreprensibile – consente a Burdenko di evidenziare le molte sfaccettature di un personaggio tormentato e complesso (a metà spettacolo va a cercare la figlia anche fra il pubblico della platea). A titolo esemplificativo, da citare il Pari siamo che si discosta dalla prassi esecutiva consueta, restituito alla sua vera natura drammatica attraverso un’espressione tutta interiorizzata.
Il Duca di Mantova (qui ricco possidente di campagna) è Yusif Eyvazov che debutta un ruolo in grado di valorizzarne in pieno le enormi qualità vocali. Lo spavaldo tenore azero evita con facilità gli ostacoli vocali della parte, inclusa l’insidiosa tessitura di Parmi vedere le lagrime e l’applauditissimo La donna è mobile. Sul piano interpretativo buona anche la sua propensione ai chiaroscuri, il lavoro accurato sulla dizione, la scolpitura e l’enfasi tipici dell’accento verdiano. La casertana Rosa Feola, per la sua prima volta in Arena a sostituire una collega improvvisamente ammalata, ha esibito un timbro florido, assistito da una tecnica rifinita; gli acuti sono pieni a torniti, i pianissimi ad alta quota sempre timbrati. Ripulito da bellurie vocali e leziosaggini fini a se stesse, il suo sobrio fraseggio sopporta l’immagine di una Gilda appassionata, tutt’altro che infantile e bamboleggiante.
Completano efficacemente la distribuzione dei ruoli principali, l’ottimo Gianfranco Montresor come Monterone, Gianluca Buratto, uno Sparafucile imponente, di altissimo livello, Valeria Girardello (Maddalerna), Agostina Smimmero (Giovanna) e tutta la compagnia comprimariale, con i vari: Nicolò Ceriani, (Marullo), Riccardo Rados (Matteo Borsa), Roberto Accurso (Conte di Ceprano). Francesca Maionchi (Contessa di Ceprano), l’usciere Giorgi Manoshvili e il paggio della Duchessa, Elisabetta Zizzo.
Il direttore Marco Armiliato ha tenuto in pugno, con mano sicura il dramma verdiano oscillando tra un approccio protoromantico, più flessibile e libero dal punto di vista ritmico (Ể il sol dell’anima e in parte anche Veglia o donna) ed una concertazione più aggressiva e stringata. Alla fine prevale quest’ultimo aspetto a tutto beneficio dell’urgenza teatrale. Il Coro maschile e l’Orchestra areniani offrono un ottimo sostegno all’intero svolgimento dell’opera completandone il successo finale. Sostenuta la presenza del pubblico che ha sottolineato più volte i passi popolari del capolavoro verdiano.