(Di Gianni Schicchi) La novità di allargare il festival ad altri luoghi storici della città, come i suoi musei, sembra funzionare. Un buon esito ha mostrato infatti la proposta di coinvolgere il Cortile Maffeiano, nell’antivigilia della prima serata al Teatro Romano, per presentare due poemetti inediti di Shakespeare: “Venere e Adone” e “Lo stupro di Lucrezia” nella rivisitazione di Valter Malosti.
Abbiamo ascoltato il primo (Lo stupro di Lucrezia è stato dato il giorno seguente) in un lungo monologo illustrato dallo stesso Malosti con l’indovinato accompagnamento sound del designer Gup Alcaro. Una rivisitazione del regista e attore torinese già avvezzo a simili operazioni (pubblicate anche per Einaudi) e ben consapevole che nessuno come Shakespeare sappia scrivere di storie, meglio se si tratta di storie già conosciute – che abbiano una tradizione da mettere a confronto con l’opera nuova. Tanto più se procurino così un’approvazione tutta intellettuale e un piacere tutto emotivo, di una riscoperta dell’universalità dell’esperienza mimetica, di una lettura che reinventa se stessa e va oltre se stessa, rinnovandosi e facendo risaltare la propria novità oltre la singola messinscena, richiamando altre citazioni, riletture e adattamenti all’infinito.
Ể un atteggiamento che un autore come Shakespeare ha trasmesso a generazioni di scrittori, attori e registi, che già nel Settecento ha subito strampalati rifacimenti delle sue commedie e tragedie. Certo non si tratta di una semplice, meccanica riproduzione di temi e situazioni già esperite: per Shakespeare si tratta delle riflessione sui propri mezzi e sui mezzi tramandati dalla storia del suo mestiere, da ritualizzare per una e mille volte successive. Una riflessione nel profondo, sul valore di ciò che sto facendo e che dovranno fare anche i suoi successori in tutti i momenti in cui la creazione verrà replicata.
Valter Malosti è sicuramente un artista visivo, che sa condurre molto accuratamente un lavoro sospeso tra tradizione e ricerca, alla scoperta di un teatro sensibile, dove l’emozione e il corpo dell’attore vogliono essere il punto focale del fare teatro, senza rinunciare ad una spiccata attenzione per le arti visive e la musica. Lo ha dimostrato ampiamente con una sostanziosa e personalissima rivisitazione di questo “Venere e Adone” di Shakespeare che sfugge a qualsiasi definizione, anche se ci è parso abbastanza tragico, col suo “inno alla carne” (pur se contro a lussuria), dove Venere è una dea sex machine, una macchina abbastanza schizofrenica, di travestimento, di baci, ma anche di morte per l’oggetto del suo amore.
L’attore regista ha iniziato il suo ricco e applaudito intervento con un ampio gesto del braccio, inneggiando alla bellezza del luogo maffeiano e lo ha ripetuto al termine, sottolineandolo con ammirazione al pubblico presente. Chissà se tutti se ne saranno resi conto.