(di Sebastiano Saglimbeni) Quanto di turpe e di tragico in questa nostra era continua a perpetrarsi va considerato come un ripetersi di azioni umane del passato che si leggono in una infinità di scritture, di cui tante classiche. Tra queste, come grande esempio, si possono ricordare quelle dello storico Cornelio Tacito. Nella Storia della Letteratura latina del 1925, Concetto Marchesi gli ha dedicato un lungo studio di oltre trenta pagine, quanto, più o meno, quelle dedicate ad Anneo Seneca.
Le pagine dell’uno e dell’altro autore sono una parte delle monografie Seneca e Tacito diMarchesi. L’una del 1920, l’altra del 1924. I due inquieti autori della latinità imperiale avevano, all’inizio del secolo scorso, ispirato ed impegnato Marchesi, latinista inquieto, autore e pure politico, dopo il lungo magistero di insegnamento. L’abbiamo potuto ricordare in un testo pubblicato su ‘Il Dialogo’, fondato da Giovanni Sarubbi, defunto, alcuni anni or sono. Tacito ebbe due precursori, gli storici Tucidide e Sallustio, un ateniese del 460 a. C., e un romano dell’86 a. C.. Non si sa con esattezza se fosse nato nella Gallia narbonese e quando fosse morto. Nell’incipit del suo studio, Marchesi scrive: “Romano fu di spirito e di grandezza e a Roma visse quasi intera la sua vita di cittadino e di magistrato, di scrittore. Si argomenta, con buone ragioni, sia nato nel tempo in cui Nerone saliva al trono imperiale, verso l’anno 54. Così egli era adolescente quando nel giugno dell’anno 68 la sanguinosa fine di Nerone apriva quel breve e interminabile periodo di guerre civili che vide cadere i cadaveri di quattro imperatori e l’impero sconvolto e l’Italia piena di stragi, di rovine e d’ignominia”.
Quando Marchesi era diventato parlamentare, all’Ottavo Congresso di Botteghe Oscure, paragonò Stalin all’imperatore Tiberio, Krusciov a Tacito. E proferì: “A Tiberio, uno dei più grandi infamati imperatori, toccò come giudice Cornelio Tacito, a Giuseppe Stalin, invece, meno fortunato, è toccato Nikita Krusciov”. Togliatti si alzò dal suo posto ed andò ad abbracciare Concetto Marchesi, non perché avesse condiviso l’espressione del latinista, ma per non turbare l’andamento del Congresso. Il turpe e il tragico, si accennava sopra, poté intensificare l’abilità linguistica e la scrittura di un uomo del passato remoto la cui memoria tra noi contemporanei rimane viva. Marchesi nel suo studio ha passato in rassegna le scritture di Tacito, Dialogus de oratoribus, De vita et moribus Iulii Agricolae, De origine et situ Germanorum, Historiae e Annales. Del Dialogus, di sospetta autenticità, non si possiede alcun documento, all’infuori delle testimonianze dei contemporanei. L’opera trattava del dibattito, a quel tempo, molto attuale, sulle cause della decadenza dell’oratoria. De vita et moribus Iulii Agricolae, un’ opera di commossa commemorazione della virtù, del valore, della vita di Giulio Agricola, di cui Tacito aveva sposato la figlia. Dubbiosi gli studiosi se vale come una biografia o una laudatio funebris. L’opera era stata composta nel 98 o nel 99, a due anni di distanza dalla morte di Domiziano, seminatore di iniquità tiranniche.
Tacito, che già si distingueva nel panorama della letteratura latina come autore indagatore scrupoloso di fatti, verso l’anno 106 voleva sapere della tragedia che il Vesuvio, squarciato dal suo fuoco micidiale, aveva nel 79 distrutto Pompei, Ercolano, Stabia e Oplontis. Fra i tanti morti, quella del naturalista Plinio il Vecchio, al cui nipote, Plinio il Giovane, si rivolgeva con una missiva Tacito per avere notizie di quella immane tragedia. E Plinio il Giovane gli rispondeva con una missiva che, fra l’altro, recita: “Mi chiedi che io narri la morte di mio zio perché tu possa tramandarla ai posteri con maggiore fondamento di verità (verius). Te ne ringrazio: perché vedo che la sua morte sarà accompagnata da gloria immortale se celebrata da te: benché egli sia perito per una memorabile fatalità che ha distrutto le terre più belle e che renderà eterna la sua memoria, come quella delle popolazioni e della città che perirono con lui: benché egli stesso abbia composto moltissime opere destinate a restare, pure alla perpetuità della sua memoria, molto aggiungerà l’eternità dei tuoi scritti”. Tacito ritornava a chiedergli altre notizie sulla tragedia vesuviana e Plinio il Giovane seguitava a narrarle in una lunghissima missiva. Delle altre opere di Tacito, per la memoria? De origine et situ Germanorum, un’operetta che veniva nelle nostre Scuole, dove si insegnava la lingua latina, fatta conoscere ai discenti con traduzioni. La descrizione etnografica e geografica di quelle genti viventi dalle rive del Reno sino al mar del Nord, al Baltico e alle rive del Danubio, si fruisce come vissuta di vita reale. Le Historiae, di quattro libri e mezzo pervenutici, sono i fatti di cui Tacito è stato testimone diretto. Gli Annales, un alto documento dell’età argentea; i fatti sono quelli recentemente trascorsi. Il senso storico e la scrupolosità dell’indagine orientano lo storico alla verità degli accadimenti per farli rivivere con quella certezza drammatica. Il pensiero scritto di Tacito, che è stato divulgato in più traduzioni nella nostra lingua, fa riflettere invero. Allora vale rifarsi al suo pensiero scritto per intendere l’azione umana di sempre sul pianeta terra. O le passioni umane, di cui, il nostro Niccolò Machiavelli scrive: “Il mondo fu sempre ad un modo habitato da uomini che hanno avute sempre le medesime passioni”. Ed Elio Vittorini, di questo nostro tempo, scrive: “L’uomo, si dice. E noi pensiamo a chi cade, a chi è perduto, a chi piange e ha fame, a chi ha freddo, a chi è ammalato, e a chi è perseguitato, a chi viene ucciso. Pensiamo all’offesa che gli è fatta, e la dignità di lui”. Pertanto, un’ eternità di offese dell’uomo all’altro uomo che, in altri termini, Plauto esprimeva nell’Asinaria con le parole “Lupus est homo homini”. Parole che, riprese nel XVII secolo dal filosofo Thomas Hobbes, recitano: “Homo homini lupus”. Nel governo del suo tempo, Tacito, vide, secondo Marchesi, “il dissolvimento della classe dirigente romana, la quale, rinunciando al presidio della legge, abdicava nelle mani della forza, cioè di un potere personale sostenuto dalle armi e dalla comoda acquiescenza servile” e che “la classe dirigente, senza più il peso della sovranità e della potestà civile, si tramutava in un ceto di trafficanti, consiglieri e zelatori di un dispotismo del quale si facevano complici per sentirsi ancora padroni”. E qui la storia remota di Tacito non pare dissimile a quella della nostra Roma o Italia odierna infangata dai vari governi. Un altro latinista, Benedetto Riposati, autore di una Storia della letteratura latina del 1967, scrive: “L’analisi dei personaggi, i giudizi sugli imperatori della casa Giulio-Claudio, le riflessioni sugli avvenimenti del tempo appaiono qua e là eccessivi, in ossequio alla sua concezione politica; e in questo senso la critica moderna tenta a rettificarli col confronto di altre fonti; ma non si potrà dire che essi siano ‘errati’ e tanto meno ‘falsi’ per espressa intenzionalità dello storico”. Tacito uno storico votato alla probità della coscienza, che è grande sicurezza di veridicità. La lingua, si può concludere, di questo classico della latinità, storico della tirannide imperiale, affascina per la sua rapidità e ricchezza di effetti e, come tale, riscuote ancora interessi di studi. Assai attuale quella sua proposizione “Corruptissima re publica plurimae leges”.
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