Massimo Franchi, ordinario di ginecologia e ostetricia e Direttore del Dipartimento materno infantile dell’Azienda ospedaliera universitaria integrata di Verona, alla luce della sua grande esperienza chirurgica ritiene che si ricorra troppo spesso alle trasfusioni intra e post-operatoprie. In molti casi se ne può fare a meno. Molte volte si ricorre ad esse più per tranquillità del medico che per necessità del paziente.
“Tutti gli interventi in teoria possono essere affrontati senza sangue – dice Franchi- Per ottenere questo, in alcuni passaggi tecnici è necessario essere estremamente prudenti, utilizzando al meglio la buona tecnica chirurgica.” Dipende dalla capacità del chirurgo.
Il ragionamento del clinico veronese si basa su alcune considerazioni, come la necessità di ‘risparmiare’ sangue per poterlo riservare a quei casi in cui non se ne può fare a meno, oltre che sulla constatazione che a volte è difficile da reperire, specie nell’attuale contingenza temporale. Le associazioni di donazione denunciano la difficoltà di raccogliere sangue in confronto alla richiesta. Ma anche perché evitare la trasfusione quando si può significa evitare possibili alterazioni del sistema immunitario. Oppure perché il paziente non trasfuso ha sempre degli ovvi vantaggi di salute, anche se poi il decorso posto-operatorio è più lungo.
La chirurgia bloodless è una pratica sempre più diffusa. Basta “somministrare – ricorda Franchi- prima dell’intervento composti a base di ferro o che stimolano la produzione di globuli rossi. Questo allo scopo di ottenere valori dell’emoglobina, pre-parto o pre-operatori, normali o in qualche caso superiori alla norma prima di un intervento potenzialmente emorragico”.
Per questo è importante applicare il Patient Blood Management (PBM), ovvero quelle strategie finalizzate a preservare i livelli di emoglobina, a favorire l’emostasi e a ridurre al minimo le perdite ematiche al fine di migliorare i risultati clinici del paziente.
Ma l’atto della trasfusione ha anche implicazioni etiche e religiose. Conosciamo tutti il valore dato tradizionalmente al sangue, ritenuto sede dell’eredità genetica e dell’appartenenza a questa o quella stirpe. Ed è altrettanto nota la norma religiosa che vieta di ricorrere alla trasfusioni ai Testimoni di Geova, una religione che conta più di 250 mila adepti.
Rispettare la volontà di chi, come appunto i Testimoni di Geova, non vuole accettare all’interno del proprio corpo sangue altrui, è un altro motivo che pone il problema della chirurgia bloodless. Gioca in questo caso un ruolo fondamentale il ‘consenso informato’.
‘Come medici, – ricorda Franchi- noi siamo tenuti al massimo rispetto delle volontà di chi assistiamo, però oggi c’è un minimo di confusione, generata soprattutto da cosa si intende per consenso informato’. Non si tratta di un passaggio meramente burocratico che precede l’operatività clinica, bensì di un momento fondamentale nel rapporto medico-paziente. Nel caso dei Testimoni di Geova è evidente che essi, anziché il ‘consenso’, esprimano il ‘dissenso informato’ e nello specifico il non consenso a ricevere del sangue.
In questo caso è necessario instaurare con il paziente un rapporto di fiducia e spiegare i rischi dell’intervento e tutte le misure profilattiche e terapeutiche necessarie alla buona riuscita della terapia chirurgica. Per Franchi, che da sempre segue la linea di evitare il più possibile le trasfusioni, questa è una procedura tutto sommato normale.