Anche senza prendere in considerazione (e men che meno approvare) alcuna delle misura già promesse a pioggia in questa campagna elettorale, il nuovo governo dovrà comunque trovare entro il prossimo 31 dicembre almeno 40 miliardi di euro, di cui 5 miliardi per estendere anche al mese di dicembre gli effetti contro il caro energia introdotti la settimana scorsa con il decreto Aiuti Ter e gli altri 35 per consentire, attraverso la prossima legge di bilancio, che alcuni provvedimenti introdotti dal governo Draghi non decadano già con l’avvio del nuovo anno.
In altre parole, sottolinea l’Ufficio studi della CGIA, il nuovo esecutivo che uscirà dal voto di domani, dagli equilibri tra partiti e coalizioni e soprattutto dalle consultazioni con Mattarella, deve prepararsi già fin d’ora a onorare un’ipoteca di 40 miliardi tondi. Va da sé che con questo conto della spesa “obbligata” sarà improbabile, se non quasi del tutto impossibile, mantenere almeno nei primi cento giorni le promesse elettorali annunciate in questi ultimi due mesi.
Tanto per fare qualche esempio: gli elettori si preparino a fare ciao ciao a una drastica riduzione delle tasse, all’agognata riforma delle pensioni, al taglio del cuneo fiscale e via concedendo, per adesso solo a parole. Senza contare che se i nuovi inquilini di Palazzo Chigi volessero intervenire con provvedimenti aggiuntivi per mitigare i costi dell’energia saranno necessari altri 35 miliardi per ridurre di almeno la metà i rincari che si sono abbattuti solo quest’anno su famiglie e imprese, come da tempo hanno evidenziato gli analisti contabili degli artigiani di Mestre.
Per quanto riguarda invece la legge di bilancio per il 2023, entro martedì 27 settembre sarà il governo uscente a presentare la Nota di aggiornamento al documento di economia e finanza (Nadef), mentre spetterà al nuovo esecutivo redigere entro il 15 ottobre il Documento programmatico di bilancio (Dpb), ed entro il 20 ottobre il disegno di legge di bilancio. Soprattutto queste ultime due scadenze quasi certamente non potranno essere rispettate, visto che la prima seduta delle nuove Camere è stata fissata per il 13 ottobre. Anche approvare in tempo la finanziaria 2023 non sarà facile: per legge il voto definitivo deve avvenire entro il 31 dicembre, altrimenti scatterebbe l’esercizio provvisorio.
Pertanto i tempi a disposizione sono strettissimi e non sarà facile trovare le tutte le risorse per confermare anche per l’anno prossimo molti provvedimenti introdotti dal governo Draghi. Eccole di seguito e illustrate nel grafico: quasi 15 miliardi per rinnovare nel primo trimestre le misure contro il caro energia previste dal decreto Aiuti Ter; almeno 8,5 miliardi per indicizzare le pensioni; 5 miliardi andranno per il rinnovo del contratto del pubblico impiego; inoltre 4,5 miliardi andranno impegnati per lo sconto contributivo pari al 2% a vantaggio dei lavoratori dipendenti con reddito fino a 35 mila euro; e infine 2 miliardi riguarderanno spese indifferibili.
Il pericolo stagflazione. Il rischio più avvertito dagli economisti e percepito come “molto elevato” è che l’ economia del nostro Paese stia scivolando lentamente ma progressivamente verso la stagflazione. Questo fenomeno, a molti sconosciuto, si manifesta raramente quando a una crescita economica tendente allo zero o addirittura negativa si affiancano alti tassi di inflazione, la quale fa aumentare in misura preoccupante il tasso di disoccupazione. Uno scenario che potrebbe verificarsi l’anno prossimo anche in Italia, così come già è successo nella seconda metà degli anni Settanta. Gli effetti della guerra in Ucraina, gli aumenti dei prezzi delle materie prime e dei prodotti energetici rischiano, nel medio periodo, di spingere l’economia verso una crescita pari a zero, con una inflazione che si avvierebbe a toccare le due cifre.
Contrastare la stagflazione è un’operazione estremamente complessa, e il rimedio è quindi tagliare le tasse ma anche la spesa corrente. Si tratta di un’operazione molto difficile. Infatti per invertire la spinta inflazionistica gli esperti sostengono che le banche centrali dovrebbero contenere le misure espansive e aumentare i tassi di interesse, operazione già in corso che provocherà la diminuzione della massa monetaria in circolazione. E’ evidente che avendo un rapporto debito/Pil tra i più elevati al mondo, con l’aumento dei tassi di interesse l’Italia registrerebbe il deciso incremento del costo del debito pubblico.
Bisognerebbe quindi intervenire simultaneamente almeno su altri due versanti: in primo luogo attraverso una drastica riduzione della spesa corrente e, in contemporanea con un taglio della pressione fiscale, unici strumenti efficaci in grado di stimolare i consumi e per questa via alimentare anche la domanda aggregata di beni e servizi. Operazioni, queste ultime, non facili da applicare in misura importante, almeno fino a quando non verrà rivisto il Patto di Stabilità a livello europeo. E che un governo appena insediato, con tutte le difficoltà interne ed esterne e una scarsa propensione al confronto tra le varie anime politiche del Paese, si preannuncia estremamente difficoltoso a breve e medio periodo.