Questa è la notizia, così come la riporta La Repubblica: Amazon ha sospeso il social network Parler dai suoi server alle 9 circa di lunedì 11 gennaio (ora italiana). Questo vuol dire che Parler non è più raggiungibile in alcun modo ed è, di fatto, offline. La mossa di Amazon era stata anticipata dall’amministratore delegato del social usato dall’estrema destra americana, John Matze, che aveva promesso di tornare attivo in una settimana al massimo. «Abbiamo avuto troppo successo e troppo velocemente» ha scritto Matze sabato scorso. La motivazione addotta da Amazon, che sui suoi server ospita piattaforme molto note e usate come Netflix, è invece relativa alla presenza su Parler di «post che chiaramente incoraggiano e incitano alla violenza». Amazon afferma di aver segnalato per «diverse settimane» 98 casi di post controversi. Il motivo è lo stesso che ha portato la rimozione del social dagli app store di Google e App e al blocco dei profili di Trump da Facebook e Twitter (nonostante sia seguito da 88 milioni di persone).
Al di là se si è simpatizzanti o meno dello “sciamano del Campidoglio” e dei suoi strumenti di comunicazione, questa notizia apre uno scenario per molti versi inquietante: nel momento in cui i social media hanno un peso così rilevante nel formare l’opinione pubblica – ed hanno un potenziale altrettanto enorme nel poter raggiungere immediatamente un pubblico molto vasto con informazioni di servizio (si pensi a cosa possono fare nelle emergenze) – può essere affidato il loro controllo esclusivamente ai proprietari dei Big Social? Chi controlla, banalmente, i controllori?
Anche perché nell’utilizzo dei big data raccolti attraverso i social media non è che le garanzie abbondino: come vengono costruiti gli algoritmi che regolano cosa vediamo e cosa non vediamo sui nostri social? Sulla base di quale decisione aziendale: vendere pubblicità? capire i comportamenti di un certo gruppo di opinione? Oppure, far pensare la pubblica opinione in un certo modo? O qualsiasi altra cosa sia utile in quel momento?
La censura è sempre stato uno strumento di governo da parte dei governi e delle chiese. In qualche caso, erano persino governi democraticamente eletti. Ma cosa dà il diritto a Mark Zuckerberg o a Jeff Bezos di erigersi a censori delle idee altrui? E’ vero, le piattaforme sono private e bisogna sottostare ad un regolamento per il loro utilizzo. Ma quando questi media raggruppano miliardi di persone non c’è un interesse collettivo altrettanto importante da difendere?
E ancora, con quale base morale Bezos e Zuckerberg ci impongono il bene e il male quando loro stessi sono i primi che scappano dalle leggi, anche da quella semplice prassi di pagare le tasse senza servirsi dei paradisi fiscali? E questi sono i gestori che conosciamo: cosa succede coi social che nascono e crescono in Paesi dalla democrazia scarsamente esistente come Cina e Russia e che rispondono direttamente ai Governi di quelle potenze?
Insomma, quanta libertà individuale siamo disposti a cedere pur di stare sui social? Questa è la domanda che oggi andrebbe fatta. Da ciascuno di noi. Almeno sino a quando risposte più chiare sull’etica complessiva dei social non verranno date. Per dirla con Matteo Spigolon, esperto in comunicazione politica e pubblica: « Sento spesso dire che non essere presenti sui social è un rischio troppo grande da correre. Io la penso diversamente: oggi è diventato un rischio troppo grande esserci dentro. La dipendenza che creano nel tempo offusca la mente e impedisce di considerare qualsiasi alternativa. “Non avrai altro Dio all’infuori di Mark Zuckerberg”, recita il primo comandamento della tavola di Facebook. I social hanno sulle persone lo stesso effetto della prigione sui detenuti di lungo corso: dopo aver scontato la pena e aver assaggiato un sorso di quella che pensavano fosse libertà, commettono appositamente un reato per tornare in carcere perché il mondo là fuori li spaventa e non fa più per loro».