(di Stefano Tenedini) Il Veneto è nel gruppo di vertice tra le regioni italiane per l’economia circolare, uno dei passaggi fondamentali per la sostenibilità del nostro modello di sviluppo e un punto di forza per intercettare gli investimenti europei che proprio sul consumo delle materie prime e sul loro riutilizzo basa molta della visione (e del Recovery Plan, tra l’altro). Siamo nella parte alta della classifica sia per l’adeguatezza della normativa regionale che in termini concreti, di “cose fatte”. Davanti a noi c’è solamente la Lombardia, per la maggiore popolazione e per la percentuale prodotta sul Pil nazionale. Siamo in buona compagnia nel Nord-Est, con il Trentino Alto Adige e il Friuli Venezia Giulia, e precediamo di poco l’Emilia Romagna che è ormai riconosciuta come parte integrante dell’area che traina il Paese.
Ci sono insomma le migliori premesse per non perdere questo treno, un nuovo modello di sviluppo economico che dal Nord Europa sta acquistando seguaci a livello internazionale. Il prossimo passaggio dovrà essere la capacità di aggregare e integrare i soggetti innovatori, equamente divisi tra i laboratori di ricerca di area pubblica e le imprese private. Il volume dei finanziamenti in gioco basta da solo a capire quanto per il Veneto (e Verona può fare la sua parte) sia una partita da seguire con il massimo impegno. Parliamo di 454 miliardi solo di fondi strutturali europei, destinati a più di 500 programmi nel settore, di altri 183 come cofinanziamenti da parte dei singoli Stati, e di ulteriori 34 tra UE ed European Investment Bank. Tutto il sistema dovrà partecipare a questa corsa all’oro sostenibile.
Consideriamolo una parte integrante del Recovery Plan, il “pedale dell’acceleratore” su cui l’Unione dovrà premere per far ripartire l’economia in coma profondo nel dopo pandemia. E lo scenario dovrà cambiare completamente, nel senso descritto dall’economia circolare: un nuovo modello di sviluppo che si discosta da quello abituale perché chiede di “rifiutare l’idea stessa di rifiuto”. Impedire cioè che un oggetto arrivi al suo fine vita finendo in una discarica, e fare in modo che abbia una seconda possibilità con altri utilizzi. Funziona per i singoli oggetti e può (deve) funzionare anche in sistemi ben più complessi come i distretti industriali o le stesse città, per reimmettere in circolo le risorse. Si risparmia, si danneggia meno l’ecosistema e si contiene l’inquinamento. E in più si produce occupazione: nel 2030 l’Europa potrebbe ricavare 700 mila nuovi posti di lavoro dall’economia circolare.
Ad approfondire il tema e a dare i voti alle regioni è il Circular Economy Report, realizzato dall’Energy&Strategy Group alla scuola di Management del Politecnico di Milano, da poco reso pubblico. Il dato di fondo cui guardare per rafforzare i cambiamenti è questo: l’Italia consuma circa 500 milioni di tonnellate di risorse naturali l’anno, ne importa più di 300 ma ne genera 170 di rifiuti, quindi abbiamo un tasso di circolarità fermo al 17,7%. D’accordo che puntare al 100% è impossibile, ma l’area di miglioramento è davvero amplissima. Una strategia è rendere davvero sostenibile la gestione dei rifiuti, attraverso forme di recupero più efficienti in termini di materia, di energia e di smaltimento. Senza rinunciare (e questo sarebbe davvero un innovativo salto di qualità) a intervenire sul design del prodotto, per ridurre il prelievo di materie prime e renderlo più riciclabile una volta finito di usarlo. C’è spazio per questa nuova mentalità? Il Report 2021 sostiene di sì: il 62% delle aziende si sta già dedicando a implementare almeno una pratica di economia circolare o sta operando in un ruolo di supporto ad altre imprese. Un altro 14% di imprese punta ad adottare almeno alcuni elementi “circolari” nel giro di tre anni, e solo il 24% si dichiara indifferente.
“Tra i settori studiati nella ricerca, quello che ha meglio compreso che le tecnologie digitali permettono di sviluppare i nuovi business plan “circolari” è la filiera dell’automotive, in cui c’è la propensione a immaginare strumenti di controllo e misura che favoriscano il nuovo modello”, precisa Davide Chiaroni, curatore del Report. “Invece l’impiantistica industriale, che pure ha investito molto nel 4.0, è ancora indietro. L’Italia è bloccata alla fase zero della visione “circolare”, ma si illude di essere avanzata solo perché ricicla. C’è tanto da fare e le imprese devono capire che una parte di tecnologia aiuta l’efficienza energetica, riduce gli scarti e ottimizza i processi produttivi in chiave ambientale, non stiamo approfittando del digitale per giocare davvero la partita in un contesto di economia circolare”.
Ma torniamo all’Italia delle regioni meglio piazzate in questa corsa all’uso più consapevole delle risorse. Nel 2020 il MISE ha finanziato (ma con poco più di 200 milioni, una goccia nel mare) progetti di ricerca e sviluppo nel settore, con un focus sulla riconversione di attività produttive. Nell’attesa degli investimenti europei, ben più cospicui, alcuni territori intanto si sono dotati di una normativa moderna sia nella gestione dei rifiuti che nella catena della creazione industriale dei prodotti. In questa fascia c’è quasi tutto il Nord, soprattutto nella prospettiva del recupero delle risorse energetiche. Mancano ancora un design pensato per l’ambiente, il concetto di riutilizzo produttivo e soprattutto i sistemi di recupero di materie prime e dei componenti, con il coinvolgimento dai clienti finali.
Di buono il Veneto, la Lombardia e buona parte del Nord-Est hanno definito la normativa in chiave avanzata, partendo dal riciclo e dalla diffusione delle best practice finalizzate alla prevenzione (per i cittadini) e alla riprogettazione (per le aziende). Lo schema di interventi coinvolge enti pubblici e privati, descrive nel dettaglio i tipi di rifiuti e a che impianti vanno destinati, monitora la situazione e fissa obiettivi di sviluppo. Alcune tra le migliori regioni sono addirittura più avanti rispetto agli obiettivi di sostenibilità fissati dall’Unione Europea per zone che vanta condizioni iniziali migliori. Insomma, una volta tanto la realtà supera la nostra percezione negativa, ma non basta. In palio non ci sono solo i miliardi della UE, ma una svolta decisa verso un modello di sviluppo più adeguato a oggi. E al futuro.