(di Paolo Danieli) La vittoria al Campionato d’Europa ha confermato un dato rilevato mai abbastanza. Il calcio è un fenomeno socio-culturale che travalica lo sport. La partecipazione dell’intero paese all’avventura europea degli azzurri, al punto da diventare un momento di unità nazionale che la politica negli ultimi 70 anni non è mai riuscita ad ottenere, è la dimostrazione che il calcio è qualcosa di più del gioco che si vede in campo. Evoca sentimenti sopiti. Risveglia attitudini che l’uomo della società attuale non può più esercitare. Prendiamo il senso d’appartenenza: la pressione del mainstream ci dice in ogni momento che ciascuno di noi appartiene al genere umano (bella scoperta!), che è cittadino del mondo, che siamo tutti uguali, che le razze, le etnie, le nazioni e via, via, fino alla famiglia, non esistono, che sono tutte invenzioni. L’unica realtà è l’individuo-consumatore, inteso come atomo avulso da ogni contesto genetico, culturale, sociale.
Ma poi arriva la partita. Ed ecco scattare l’identificazione di una nazione con la propria squadra. Un processo inconsapevole, automatico, in contrasto palese con tutte le sovrastrutture culturali e politiche che ci circondano. Ma la parte di noi più profonda, quella porzione di cervello impenetrabile anche per la propaganda più raffinata del pensiero unico, in un battibaleno ricomincia a ragionare come ha sempre fatto per milioni di anni: noi e gli altri; gli italiani e gli inglesi; gli amici e i nemici. Si risvegliano ataviche pulsioni. Si vive la partita come combattimento combattuto per interposta persona.
Basta una partita di calcio e tutte le balle del pensiero unico vengono spazzate via. Ognuno si identifica in quei giocatori che simbolicamente rappresentano quello in cui ti riconosci nel profondo. La gara diventa un combattimento ritualizzato, combattuto per interposta persona da una pattuglia di “guerrieri” che lottano, soffrono, vincono o perdono in nome e per conto tuo. Come avveniva nel Medioevo. Come è sempre avvenuto da che mondo è mondo, da che uomo è uomo. Il vergognoso inginocchiamento prima della gara è la forca caudina cui, più o meno consapevoli, si sono dovuti sottoporre i giocatori. Un atto formale imposto. Niente in confronto al significato profondo della gara che è necessario cogliere, non tanto per capire la portata culturale del calcio, quanto per riflettere sulla quanto sia falsa e innaturale la cultura dominante che ci viene imposta. L’uomo non ha bisogno della pace universale, del melting pot, dei centri commerciali e di Amazon. L’uomo ha bisogno di sentirsi parte di una famiglia, di un gruppo, di una squadra, di una nazione per le quali, se necessario, anche combattere. Come è sempre stato. A volte per svelare verità profonde basta poco. Anche un semplice partita di calcio.