(di Alberto Rizzati) Partiamo dal caso più conosciuto del veronese, nella notte tra mercoledì 17 e giovedì 18 aprile 1991 a Montecchia di Crosara, Pietro Maso, Giorgio Carbognin, Paolo Cavazza e Damiano Burato ammazzano con l’ausilio di mazze di ferro, un bloccasterzo e una pentola i genitori di Pietro Maso. Il duplice omicidio commesso con una brutale ferocia, si scoprirà poi essere stato fatto per meri interessi economici.
Le indagini ci mettono pochi giorni per capire che gli assassini non sono dei rapinatori occasionali, non sono dei ladri, ma Pietro Maso in compagnia degli amici. Sono tutti arrestati per omicidio volontario, accusa che diventerà poi duplice omicidio volontario premeditato pluriaggravato, aggravanti sono infatti la crudeltà, i futili motivi e per Maso anche il vincolo di parentela.

Viene anche effettuata una perizia psichiatrica sugli imputati dal professor Vittorino Andreoli, la quale stabilisce che tutti hanno la capacità di intendere e di volere, ma evidenzia la crisi di valori dell’ambiente in cui i giovani sono cresciuti indicandola come una delle concause della vicenda. Il Burato, minorenne, viene giudicato dal tribunale dei minori che lo condanna a 13 anni di reclusione.
Per i restanti tre imputati i legali chiedono che il processo venga celebrato con rito abbreviato per poter avere la riduzione di un terzo della pena ed evitare quindi una possibile condanna all’ergastolo, ma nell’udienza preliminare il Giudice Carmine Pagliuca respinge tale richiesta sostenendo che il rito abbreviato non può essere concesso nei casi in cui è previsto l’ergastolo.
Quindi, al termine dell’istruttoria, il Pubblico Ministero Mario Schinaia chiede l’ergastolo per Pietro Maso 30 anni di reclusione per Paolo Cavazza e 28 per Giorgio Carbognin.
Le pene inflitte dalla Corte di Assise di Verona invece sono 30 anni di reclusione per Maso e 26 anni ciascuno per Cavazza e Carbognin.

Maso viene condannato a 30 anni in quanto a tutti e tre i giovani vengono riconosciute le attenuanti generiche e quelle della semi infermità di mente, considerandole equivalenti alle aggravanti. In questo modo, le difese degli imputati ottengono un ottimo risultato evitando l’ergastolo per i loro assistiti. Spontaneo, a questo punto, chiedersi come sia possibile non condannare alla pena dell’ergastolo in un caso di così feroce violenza che ha portato alla morte di due innocenti.

La Corte di appello di Venezia e la Cassazione confermano le pene. Il 14 ottobre del 2008, dopo solo 17 anni dall’efferato delitto dei genitori, il Tribunale di Sorveglianza di Milano, ove Maso è rinchiuso, lo mette in semilibertà, semilibertà che prevede che il condannato esca del carcere, durante il giorno, per partecipare ad attività lavorative, istruttive o utili al reinserimento sociale. Infine, “grazie” all’indulto Pietro Maso torna un cittadino libero il 13 aprile 2015.

Quindi per un reato per cui è prevista la pena massima dell’ergastolo, Pietro Maso inizia ad uscire dal carcere tutti i giorni dopo 17 anni e definitivamente dopo 24 anni, avendo una vita ancora davanti a differenza dei suoi genitori. Vi è da chiedersi se ci sia proporzione tra questo delitto e altri tipi di reati. Il problema della misura delle pene è fra i problemi cruciali del diritto penale. A livello giudiziario le pene commisurate nella sentenza di condanna dovrebbero essere attuazione ‘di giustizia’.

Sulla misura delle pene edittali la Costituzione non dà indicazioni dirette: la determinazione della pena rientra nella discrezionalità politica del legislatore. Sul rapporto fra delitti e pene, l’idea guida che attraversa fin dall’antichità la nostra storia è quella della proporzione.
In assenza di criteri precisi di corrispondenza fra reato e pena, l’idea di proporzione non può pretendere di essere un criterio di per sé sufficiente di individuazione univoca di un’ipotetica pena giusta in assoluto. Un sistema che si possa definire coerente di risposte al reato può essere costruito in ragione di un rapporto di gravità fra diversi reati (a livello legislativo, tipi di reato), partendo dai delitti più gravi e scendendo verso il basso.
Tutto questo ricordando però quanto recita l’articolo 27 3 comma della nostra costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.  Quindi, anche una eventuale condanna all’ergastolo cozza con il principio di “rieducazione”.

Ci è sempre stato insegnato che siamo tutti uguali innanzi alla legge, e di conseguenza che ogni cittadino abbia diritto ad una pena uguale ad un altro cittadino qualora venga commesso lo stesso reato, ma nel concreto cosa si intende? L’uguaglianza di fronte alla pena significa “proporzione” rispetto alle personali responsabilità ed alle esigenze di risposta che ne conseguano. Da ciò la Corte costituzionale ha tratto l’indicazione che in linea di principio previsioni sanzionatorie rigide (che cioè non lascino spazio per scelte discrezionali) non sarebbero in armonia con il volto costituzionale del sistema penale. 
Potrebbero essere non illegittime “a condizione che, per la natura dell’illecito sanzionato e per la misura della sanzione prevista, quest’ultima appaia ragionevolmente proporzionata rispetto all’intera gamma di comportamenti riconducibili allo specifico tipo di reato”.

Da considerare, anche, che la rigidezza della sanzione risulta attenuata dalla possibile sussistenza di circostanze aggravanti o attenuanti.  Circostanze aggravanti od attenuanti che devono essere valutate caso per caso dal Giudice con ampia discrezionalità. Infine, non dobbiamo dimenticare che entrambi i campi (reato e pena) di cui si compone il diritto criminale/penale, sono in rapporto con la politica.

Il versante dei reati è più razionalizzabile, il mondo delle pene assai meno.  È la pena l’aspetto più esposto alla politica contingente, campo di battaglia fra ragioni contrapposte; qualche volta (molte volte) fra ragioni di giustizia ed altre che non lo sono, ma che fanno parte di ciò che interessa la politica. La politica nel senso nobile del termine, in alcuni casi, quando si tratta di giustizia, rischia lo scivolamento nella bassa politica. Senza andare troppo lontani, anche recentemente, una certa parte politica ha fatto un “drammatico” uso populistico della legislazione penale.
Con malinconico disincanto, dobbiamo guardare al populismo penale come prodotto della democrazia realmente esistente.
Come idea “giusta” delle scelte sulla pena, non vi è altro punto di partenza se non l’idea della proporzione, atta a inquadrare il problema di fronte al quale il legislatore si trova: individuare tipi di risposta adeguati per dati tipi di reato.
C’è da chiedersi se le misure di pena detentiva dovrebbero lasciare aperta la possibilità di reinserimento anche all’autore di un delitto come quello compiuto da Pietro Maso