(di Giulio Bendfeldt, foto: Maurizio Borgonovi) La rivolta di Budapest, 1956, è troppo in là per la mia generazione e, in fondo, apparteneva ad un’altra storia. Quella dei blocchi rigidi della cortina di ferro, quando si dava per scontato che l’Europa fosse divisa in due e che fosse impossibile cambiare lo status quo, pena riprendere le ostilità finite appena undici anni prima. In mezzo c’era stato il ponte aereo alleato per salvare dalla fame gli abitanti di Berlino Ovest, i vecchi nemici erano diventati velocemente i nuovi alleati e la preoccupazione di riprendere il conflitto con l’Unione Sovietica si confrontava, banalmente, col vuoto di due generazioni di uomini nell’Europa centrale. Chi avrebbe combattuto? In quanti? Con quale industria alle spalle? Il Regno Unito viveva ancora in razionamento, la Francia perdeva una colonia al giorno, la Germania era un cantiere… Praga no, la primavera di Praga arrivava in un periodo profondamente diverso: l’Ovest conosceva il boom industriale, la rivoluzione sessuale, la carica dei baby boomers che volevano tutto, ma, certo, non andare in trincea. Praga ha raffreddato tutto ed ha posto domande nuove: ricordo come guardavamo con partecipata tristezza, anche noi ragazzini, le poche auto di turisti cechi che in quei giorni rientravano mestamente a casa.
Chi si illudeva in un socialismo dal volto umano rimase scottato. Il 20 agosto – esattamente 52 anni fa – le truppe del Patto di Varsavia invadevano la giovane e socialista Cecoslovacchia chiudendo manu militari l’esperienza di sette mesi di timida apertura democratica. Lo choc portato dalle foto di Alexander Dubček – l’innovatore premier cecoslovacco – mostrato in manette, seduto sul pavimento del Tupolev che lo portava in arresto a Mosca per venir giudicato dall’ortodossia sovietica, ha fatto riflettere più d’uno. Era chiaro a tutti che soltanto la forza della televisione, della comunicazione di massa, salvò la vita a Alexander Dubček che poté rientrare a Praga e scomparire nell’anonimato di un marginale impiego pubblico. Appena pochi anni prima sarebbe finito “suicidato” giù da un balcone…
Chi non si illudeva di quel socialismo, capì bruscamente non soltanto che “dei rossi” non c’era proprio da fidarsi, ma anche che l’opulento Occidente non avrebbe mai interrotto i suoi riti per difendere la libertà di un “altro” popolo. L’Europa era sola. Magari più ricca, ma senza rete e senza volontà. Era una destra diversa, nuova rispetto a quella uscita dalla guerra civile. Una destra che stava per vivere una stagione tragica.
Il martirio di Ian Palach aggiunse altra carica emotiva. Praga e Palach divennero così i simboli di un impegno, la cifra politica di una generazione. Certamente più del crollo del muro di Berlino. Lì la storia era già finita, c’erano soltanto da spazzare via le macerie…