(di Giorgio Massignan, Verona Polis) Sulla facciata del palazzo Ridolfi-Da Lisca (ex liceo Messedaglia), dove nel 1797 furono processati e condannati a morte dai francesi Francesco Emilei, Augusto Verità,  Giambattista Malenza ed altri patrioti veronesi, è stata inaugurata una lapide a loro memoria. Ovviamente si è immediatamente accesa la polemica tra i sostenitori della rivolta e quelli della Rivoluzione francese. Per avere un quadro obiettivo, è necessario capire perché, sui territori governati dalla Serenissima, potessero scorrazzare liberamente gli eserciti della Francia e dell’Austria.

Nel 1796, la Repubblica della Serenissima, in totale decadenza,  era governata da una ristretta cerchia di famiglie nobili, che  amministrava Venezia ed i suoi territori, con un sistema oligarchico, attento a preservare gli interessi, i beni ed i privilegi della casta dominante ed a prevenire eventuali sommosse interne, ispirate ai principi illuministi, che avrebbero potuto sovvertire l’ordine sociale.

Va anche osservato che Venezia ha sempre trattato le città “sottomesse” come città suddite. I principali ruoli politici, amministrativi, militari ed anche ecclesiastici, erano tenuti da veneziani. Militarmente ed economicamente debole, la Serenissima ricorse alla “neutralità disarmata”, che permetteva il transito ed anche il soggiorno sul proprio territorio, degli eserciti stranieri.

L’Austria e la Francia avevano capito la debolezza di Venezia e la possibilità di impadronirsi facilmente dei suoi territori. Così decisero di dividerseli e, con il trattato di Leoben del 17 aprile del 1797,  stabilirono che all’Austria sarebbe andato il Veneto con l’Istria e la Dalmazia, mentre alla Francia la Lombardia ed il Belgio. Napoleone, dopo aver preso Verona senza colpo ferire, doveva trovare la giustificazione per invadere Venezia.   L’ospitalità offerta dalla città scaligera al conte di Lilla, futuro Luigi XVIII, era una scusa non sufficiente per punire Verona e Venezia; era necessaria una rivolta armata. Così, le truppe d’invasione francesi, tentarono in tutti i modi di provocare la popolazione veronese, con violenze, saccheggi e stupri.

Da osservare che Napoleone, con la forza delle baionette, introdusse i principi liberali della Rivoluzione, penalizzando i privilegi della chiesa e dell’aristocrazia, che iniziarono a fomentare la reazione contro i giacobini. Il 17 aprile, lunedì di Pasqua, i veronesi, stanchi delle prepotenze francesi e dell’inerzia di Venezia, si ribellarono e si armarono con qualsiasi oggetto contundente avessero a disposizione. Da quel momento, tutta la città si sollevò.  Se da Venezia non arrivarono aiuti, dalla campagna veronese e dai monti della Lessinia, giunsero numerosi volontari; non erano soldati di professione, ma uomini coraggiosi, armati con poche armi da sparo, ma con tante roncole, forconi e falci. Per nove giorni i veronesi, guidati da Emilei,  Maffei, Verità ed altri, tennero testa al potente esercito francese ma, il 25 aprile, la rivolta, denominata delle Pasque veronesi, fu soffocata e Verona fu costretta ad accettare la resa senza condizioni.

I francesi pretesero pesanti risarcimenti in denaro e materiali, oltre a saccheggiare le opere d’arte e scientifiche delle collezioni pubbliche e private, contenute nelle case, nelle chiese e nelle pinacoteche. La pala del Mantegna, custodita a San Zeno, assieme ad altre opere d’arte, fu spedita a Parigi. Fu il Canova che, dopo Waterloo, riuscì ad ottenerne il ritorno di una parte.