Lo so, parlare di pensioni in un Paese di pensionati è come parlare di corda in casa dell’impiccato. Semplicemente,  non si fa. Ma davanti all’ultimo brillante risultato dell’Inps – meno 20 miliardi sul budget, meno 14,9 miliardi di entrate contributive; più 4,1 miliardi di prestazioni erogate – iniziare a parlare di una riforma urgente del sistema nazionale del welfare è necessario. I 16 milioni di pensionati italiani ricevono 22,7 milioni di prestazioni (1.42 pensioni a testa…): sono il 26,5% della popolazione, votano, guardano la televisione decidendo quali programmi la Rai produce oppure no; fanno Pil. La pensione media è di 12.742€/anno; l’incasso medio del totale delle prestazioni è di 18.329 €/anno. Il 50% delle pensioni è totalmente o parzialmente a carico dello Stato, dato che i contributi versati sono troppo scarsi per ottenere il mimino pensionistico. La Repubblica paga 834mila pensioni sociali a persone che sino ai 66 anni erano sconosciute al fisco:  mai un lavoro, un’attività, niente.

I baby-pensionati che incassano la pensione da più di 37 anni sono poco meno di 70mila persone; 3,7 milioni di pensionati incassano il vitalizio da più di 25 anni e 236mila italiani sono stati prepensionati.

Ora, siamo tutti orgogliosi del nostro welfare e del fatto che non abbiamo migliaia di nonni agli angoli della strada a chiedere l’elemosina, ma forse è giunto il momento di mettere mano a questo colabrodo, sapendo che comunque impedirà all’Italia di investire sul futuro per almeno tutta un’altra generazione.  Il punto è che questo sistema è profondamente ingiusto e nessuno può  sentirsi al riparo, nemmeno i professionisti che hanno le casse autonome dato che queste vengono saccheggiate quotidianamente dalle crisi aziendali e dal mancato ricambio generazionale. Una alla volta, finiranno nell’Inps e quindi a carico della collettività (è già successo, nel recente passato).

Soluzioni? Nessuno augura ai nostri nonni di scomparire (anche perché appartengono ad una generazione di ferro: paghiamo ancora 200mila pensioni per una guerra che è finita 75 anni fa…) e quindi si dovrà lavorare sui nuovi contribuenti. Magari adottando una soluzione smart e meno generatrice di caos, diritti acquisiti (una vera dittatura che ha saccheggiato il patrimonio nazionale) e rivendicazioni assurde e relative politiche. Gianni De Michelis ci aveva provato negli Anni Ottanta e magari lo avessimo ascoltato!

Un modello simile a quello canadese: dai 20 anni ai 60 (o alla età che si decide, anche 65 anni dipende dalla vita media) si paga tutti una quota mensile, uguale per tutti; chi vuole aggiunge del suo al montante (è quello che già avviene con la previdenza integrativa in Italia con oltre 5mila€ di detrazione totale sul reddito). A 60 anni arriva quello che si è versato con la rivalutazione legata all’investimento dei contributi (la Posta fa questo mestiere da 160 anni e lo fa benissimo). Poi ognuno fa quello che vuole: chi ha voglia lavora ancora; chi no, si gode i nipotini e la pesca alla trota, oppure fa quello che gli pare. Senza dipendere dalle norme di un Governo che ama mettere le mani nel nostro portafoglio ogni volta che ne ha bisogno.

Ovviamente, nessuno tocca quel tesoretto: se lo Stato vuol finanziare il reddito di cittadinanza, o la crisi dell’acciaio, lo fa coi soldi suoi, non con i contributi pensionistici che sono risparmio, patrimonio, dei contribuenti. In Canada un modello così funziona e nessuno si lamenta: la pensione pubblica è uguale per tutti e la regola e semplice e comprensibile da chiunque. Due fattori che rendono impossibile l’introduzione di una norma analoga in Italia, l’unico Paese dove gli Azzeccagarbugli governano. E questi sono i risultati…