(di Renato Della Bella *) Qui nel Nordest, noi piccoli e medi imprenditori siamo abituati a farcela da soli. Oggi a causa del Covid, con una situazione difficile per molti e drammatica per alcuni, siamo a disagio nel dover aspettare gli aiuti dello Stato, specie se pensiamo che sono inadeguati, come dimostrato dalle somme stanziate dopo la prima ondata a supporto delle chiusure e dei mancati fatturati. Se in questa seconda ondata di chiusure e restrizioni i ristori saranno finanziati con somme analoghe, il disagio diventerà malumore e malessere.
Qui nel Nordest, per cultura non ci siamo mai basati sugli aiuti di Stato. Abbiamo sempre fatto da soli e bene. In questi mesi, venuta meno la possibilità di operare liberamente scelte per le nostre aziende, ci troviamo a doverci affidare al governo. Una situazione che non avremmo mai voluto e che genera in noi imbarazzo, insicurezza ed anche paura, anche perché dobbiamo fare i conti con un mercato che cambia. L’assenza delle fiere, delle manifestazioni commerciali e della possibilità di viaggiare all’estero taglia fuori le Pmi da un importante segmento di vendita, soprattutto in campo internazionale. Ecco allora che alle nostre produzioni, spesso di qualità ma di nicchia, in molti casi vengono preferite forniture codificate acquistabili online, tramite l’e-commerce e, spesso, attraverso colossi come Amazon.
Noi imprenditori del Nordest ci troviamo soli, abbandonati dal Governo, in parte esclusi dal mercato e senza quella solidarietà aziendale che nel passato ha caratterizzato le grandi crisi economiche e sociali.
A quei lavoratori, fieri di far parte di una squadra di lavoro, attaccati alla maglia e partecipi dei successi aziendali fino ad essere orgogliosi di rappresentare un marchio del Made in Italy, è subentrata una nuova generazione di dipendenti. Essi sono il risultato degli effetti della precarietà, che li ha circondati nell’affacciarsi al mondo del lavoro ma soprattutto della falsa convinzione, veicolata dal dibattito sul reddito di cittadinanza che si possa vivere anche senza lavorare e, pertanto, sentono l’azienda come un luogo di passaggio e non come un luogo dove affermare la loro professionalità e sentirsi parte di una realtà che crea benessere nella società.
Questa situazione è accentuata dal “distanziamento sociale” che sempre più si tramuta da distanziamento fisico a vera e propria diffidenza nell’altro. Condizione che per gli imprenditori si traduce nell’assenza del confronto e del conforto di chi condivide il loro stesso quotidiano.
Ma c’è di più. Dietro il malessere c’è la rabbia, legata alla discriminazione tra pubblico e privato. Mentre le aziende pubbliche ricevono ingenti somme di denaro per i mancati guadagni e i dipendenti della PA lavorano in smartworking o meglio, lavorano da casa come possono, mantenendo però stipendi interi e garantiti ogni mese, i lavoratori delle aziende private in gran parte chiuse per decreto, sono costretti alla cassa integrazione, che solo parzialmente ristora l’entrata mensile e lo fa con tempi del tutto incerti. Senza contare quelli che non hanno ancora ricevuto niente.
Questa discriminazione provoca una frattura grave, che ha portato il mondo del lavoro a esser diviso tra tutelati e abbandonati. Una spaccatura che non può più esser chiamata cautelativamente crepa, perché non stiamo parlando più di pochi mesi, ma di un periodo decisamente troppo lungo per non esser governato. Nessuno si dovrà poi meravigliare se da tutto questo cresceranno e s’inaspriranno tensioni sociali che possono minare ulteriormente l’assetto del sistema produttivo e delle istituzioni.
(* Presidente API-Piccole Industrie di Verona)