Tra le pieghe della finanziaria approvata dalla Camera e ora passata in discussione al Senato si può trovare ciò che nemmeno il centrodestra aveva osato fare nella passata legislatura, ovvero un vero e proprio condono previdenziale[//]. In pratica, si potranno regolarizzare i lavoratori “in nero” pagando due terzi dei contributi omessi (un quinto subito, più sessanta rate mensili di pari importo senza interessi). Il resto – ovvero il residuo terzo di contributi omessi, nonché reati, sanzioni amministrative e tutti gli ulteriori oneri accessori – viene condonato. La peculiarità è che potranno presentare istanza di condono solo i datori di lavoro che avranno stipulato un apposito accordo con le rappresentanze sindacali presenti in azienda, o, in loro mancanza, a livello territoriale con le “organizzazioni sindacali aderenti alle associazioni nazionali comparativamente più rappresentative”. Ovvero Cgil, Cisl e Uil. Con buona pace del pluralismo sindacale, e di Ugl, Cobas e ulteriori sigle sindacali che popolano il panorama italiano, come ha già avuto modo di sottolineare Pietro Ichino sul “Corriere della Sera”. A che serve tale accordo col sindacato? In primis, a disciplinare la regolarizzazione dei rapporti di lavoro mediante la stipula di contratti di lavoro subordinato – che dovranno durare minimo 24 mesi, pena inefficacia del condono. Il disegno di legge non specifica quale tipo di contratti di lavoro subordinato, e quindi, astrattamente, l’accordo potrebbe ricadere anche su una qualsiasi delle tipologie di lavoro subordinato previste dalla c.d. Legge Biagi (quindi anche lavoro a chiamata, lavoro ripartito, etc.), o anche su contratti a termine. È chiaro, però, che i sindacati imporranno rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato “tradizionale”. Altrimenti, niente accordo, e quindi niente condono. L’accordo sindacale potrà inoltre promuovere la sottoscrizione di atti di conciliazione con riferimento ai diritti di natura retributiva “e a quelli connessi e conseguenti”, ovvero i diritti di natura contributiva. E qui si ha la parte “sotterranea” del condono. Saranno i lavoratori stessi a rinunciare a parte dei propri contributi, pur di essere regolarizzati. E il disegno di legge specifica che, mentre i lavoratori sono comunque esclusi dal pagamento della parte di contribuzione a proprio carico, “la misura del trattamento previdenziale relativa ai periodi oggetto di regolarizzazione è determinata in proporzione alle quote contributive effettivamente versate”. Regolarizzazione con danno previdenziale, quindi, cosa non da poco oggigiorno, quando tutti leggiamo di prospettive preoccupanti circa la capacità dell’Inps di garantire le prestazioni pensionistiche, e i lavoratori si vedono costretti a usare anche il proprio t.f.r. pur di costruirsi una previdenza decente. Ma tutto ciò avviene con la benedizione di Cgil, Cisl e Uil, che di questo condono per volontà del legislatore sono arbitri, ricevendo per di più un surplus immeritato di potere contrattuale. L’autorevole grido di allarme lanciato dalle colonne del “Corriere della Sera” da Pietro Ichino sulla (quantomeno) dubbia costituzionalità di tale meccanismo, che danneggia il pluralismo del sistema di relazioni sindacali, favorendo solo alcune sigle rispetto ad altre, non è stato raccolto dai deputati. D’altra parte, i sostenitori del centrosinistra, che parlano a denti stretti di “piccolo condono previdenziale”, possono avere buon gioco nel sottolinearne l’aspetto di grande operazione di giustizia sociale, finalizzata all’emersione del lavoro nero. Mentre quelli del centrodestra di certo non sono disposti più di tanto a stracciarsi le vesti, perché in fondo in fondo un condono previdenziale fa comodo a molti. Forse è per questo che più di tanto non se ne parla. Perché è spiacevole ammettere che l’irresistibile tendenza a concedere condoni “immorali” e ad emanare leggi “ad personas” è, in Italia, perfettamente bipartisan.