A dieci anni dalla scomparsa, avvenuta il 21 febbraio 1999, l’Assessorato alla Cultura Turismo Manifestazioni e Tradizioni Veronesi del Comune di Verona dedica, nella Sala Polifunzionale del Palazzo della Gran Guardia (fino al 3 marzo, tutti i giorni dalle 11.00 alle 19.00), una bella mostra a Domenico Zangrandi, realizzata in collaborazione con la moglie dell’artista Nerea. [//]
Nativo di Quinzano (8 giugno 1928) e formato all’Accademia “G.B.Cignaroli”, dove ebbe per maestri i grandi pittori veronesi de tempo, Zangrandi allestì la sua prima personale nel 1948, ma spirito versatile qual era, amò esprimersi anche nella scultura, nella grafica e nella musica. In ambito più prettamente pittorico – quello maggiormente testimoniato nell’esposizione, specie nella fase matura -, Zangrandi, dopo gli esordi giovanili influenzati dalle istanze innovative dell’immediato dopoguerra, scoprì la dimensione religiosa con una spiccata attenzione verso gli umili e i sofferenti. Appartengono a questo filone ispirativo opere di grande forza espressiva e carica provocatoria quali “Fucilati” (1978), inchiodati al loro patibolo da un filo di spine come la corona del Cristo condannato; “Lottatori” (1987), che all’esaltazione della forza vincente privilegia enfatizzare la sofferenza dell’agone, divenendo metafora della sofferenza del vivere; l’antiretorica “Maternità” (1989), che trasforma il rapporto tra generatrice e generato in pura lotta; “Razzismo” (1990), con un Giudeo crocifisso; “Stia” (1980), autentica gabbia per uomini; o gli umanissimi e dolenti “Cristo terremotato” (1980) e “San Francesco e il lebbroso” (1984).
Tutti corpi di masaccesca possanza e terragna carnalità, spiritualizzati al filtro di un umano sentire, profondo e pietoso, dalle assonanze francescane; tutti avvolti e omologati nello stesso soffuso colore grigio-azzurro – poco veronese e molto bretone – squarciato da rare pennellate di rosso squillante, giallo, verde, caratterizzante anche i paesaggi e le nature morte, geometricamente inquadrate con rigore claustrofobico, riscattato soltanto dalle ariose aperture paesaggistiche sugli sfondi. Le stesse peculiarità si riscontrano nelle citazioni e nelle reminiscenze iconiche storiche, come ne “Il pianto delle Marie” (1984), echeggiante gli antichi “compianti”; in “Deposizione” (1971), versione antiretorica e popolaresca di uno dei grandi momenti della passione del Cristo; o in “Gioco di specchi”(1986), dove un volto è visto da tre angolazioni diverse. Significativi, inoltre, anche sul piano autobiografico e psicologico, gli autoritratti esposti: quello pensoso del 1978, “dopo la caduta”; quello “quaresimale” del 1986, con tanto di “renga”, spicchio d’uovo e mela; e quello “con colbacco” dell’85, focalizzato sullo sguardo ironico e furbesco del Maestro. Infine, la mostra ha il merito – secondo noi non di poca importanza – di esporre alcuni esempi dell’opera scultorea di Zangrandi, meno conosciuta e celebrata di quella pittorica, ma di certo non meno pregevole. Pur accomunati dalla stessa monumentale fisicità, “Donna alla finestra” (1991) esibisce anche molta eleganza e finezza nell’acconciatura dei capelli e nel decoro dell’abito; il “Giocatore di pallanuoto” (1991) fa prevalere, tra le dolci increspature dell’acqua, l’anelito alla vittoria sullo sforzo fisico; mentre “Costruzione” (1976) placa intrecci sofferti di linee puntute nell’ armonica struttura compositiva generale. L’ingresso è libero.
Franca Barbuggiani