(di Gianni Schicchi) Diciassette anni di vita e non li dimostra, il Barbiere di Siviglia firmato da Hugo de Ana. L’opera rossiniana, nel felice allestimento che il regista e scenografo argentino propose con successo nel 2007, sembra ancora godere del paesaggio racchiuso nel suo giardino/labirinto, fragrante di sapori e di segreti. Un giardino dell’amore, ricco di verzure e giganteschi roseti, ma anche di molta poesia, dove succedono tutti gli elementi narrati dal libretto. Un luogo degli intrighi e della commedia degli equivoci, sullo sfondo di una Siviglia fatta di atmosfere e di profumi, senza riferimenti temporali precisi, situata su di uno spazio mobile che assume diverse posizioni rispetto all’azione drammatica. 

 Barbiere di Siviglia

Lo spettacolo vive anche delle sue gags un po’sofisticate, ma non pacchiane. La ricerca di De Ana va comunque a individuare quegli elementi spettacolari che sono propri del teatro all’aperto, cercando di dilatare alcune situazioni con movimenti mimico coreografici.

Tutti i personaggi in scena, non solo i mimi e i ballerini, ma anche gli artisti del coro e i cantanti protagonisti della storia, sono chiamati a partecipare ad una specie di grande gioco scenico che in ogni momento è sempre al servizio della musica. Per questo de Ana punta su una gestualità plateale, che lo stesso spazio areniano esige, tanto da trasformare il Barbiere in un specie di musical dove primeggia l’elemento ludico, il divertissement, la gioia di sorridere con l’eleganza che è propria della musica di Rossini.

Il Barbiere è un’opera che racchiude tutto: la giovinezza, lo spirito e l’empito di un secolo e di un’umanità rinnovata dalla tragedia e dalla catastrofe del secolo precedente. Ể questo soffio che cambia la qualità, la natura del divertimento, la ricreazione artistica e mette nel ritmo, nell’invenzione, nello stile, una diversità e una maggior voglia di vivere e di slancio vitale. Quello che stupisce di quest’opera è la sua nascita, la sua collocazione in un momento storico culturale casuale, come abbia saputo attraversare la storia per diventare uno dei primi capolavori entrati in un repertorio eseguito in tutto il mondo.

La recita di sabato 5 luglio proponeva un cast rinnovato per quattro quinti rispetto alle prime due recite, con l’esordio di importanti interpreti: dal conte di Almaviva di Dmitri Korchak, al don Bartolo di Misha Kiria, dal Figaro di Nicola Alaimo, al don Basilio di Riccardo Fassi. A confermare la compagine dell’esordio di giugno rimaneva la sola Rosina di Vasilisa Berzhanskaya, con le seconde parti di: Marianna Mappa (Berta), Nicolò Ceriani (Fiorello/Ambrogio) e Domenico Apollonio (un ufficiale). 

La russa Vasilisa Berzhanskaya si è nuovamente confermata, come nella trascorsa edizione dell’opera, per la splendida ampia vocalità, dalle ricche e morbide bruniture, sostenute da un controllo e da una proiezione del fiato eccellente, come impeccabile è la musicalità, particolarmente apprezzabile in una coloritura liquida, scorrevole, nitidissima. Basta ascoltare le sue variazioni, non già lo sfoggio della virtuosa, bensì l’espressività dell’interprete, per comprendere come vitalità e languore si coniugano e reciprocamente si potenziano.

Fra i “nuovi” in scena, la palma del migliore spetta sicuramente a Nicola Alaimo, accolto da un calorosissimo applauso al termine della celebre cavatina. Il baritono palermitano ha ormai fatto ampia esperienza della lezione impartita dal celebre zio Simone. Il suo Figaro è oggi fra i migliori in circolazione, per la scioltezza e vivacità di fraseggio, il controllo e la fluidità nella coloritura, la facilità nella proiezione alle note acute, che suonano tonde, nitide, ben timbrate. Doti musicali che si uniscono ad una presenza scenica formidabile, di rara efficacia comunicativa. 

Gli ha offerto il destro il baritono georgiano Misha Kiria (don Bartolo), anche lui da considerare artista di alto livello internazionale. La coppia con Alaimo, è una lezione anche di stile, di gusto, di fantasia vocale, non memo che teatrale, in una miriade di particolari originali. 

Sappiamo come il livello del Barbiere non possa poi essere sminuito da un Conte di Almaviva inadeguato, ma fortunatamente non è nel nostro caso. Fin dalla Serenata (peraltro passata senza applausi) il tenore russo Dmitri Korchak ha infatti sfoggiato la nutrita pienezza di un canto solido, luminoso, squillante negli acuti (evita con saggezza di affrontare il complicato “Cessa più di resistere” finale), capace di alleggerimenti o sfumature, immuni da scivolate in un smunto falsettino che forma l’esiziale tratto di tanti piccoli “conti” sentiti in altre occasioni.

Al basso Riccardo Fassi è toccato rimpiazzare all’ultimo momento il previsto collega Alexander Vinogradov come don Basilio, Naturalmente ha cantato la sua “Calunnia” nel re maggiore prescritto, concorrendo con una buona scioltezza, ma con la minuzia di un fraseggio fantasioso, a comporre la luciferina grandezza di un personaggio che come lui stesso ha modo di dire: “è un omino da niente che la calunnia, elevata a ideale di vita, rende alla fine più grande di un re”.

Marianna Mappa ha disegnato infine la sua Berta scontrosa, ma dal fondo bonario, con musicalità impeccabile, recitazione scioltissima e spiritosa. Bene le prestazioni di Nicolò Ceriani nella doppia parte di Fiorello/Ambrogio e Domenico Apollonio come ufficiale. Roberto Gabbiani ha ottenuto ottimi risultati dal suo coro, trasformato spesso in organico attoriale, cui la regia di de Ana ha affidato un ruolo molto attivo.   

Ha diretto il giovane greco George Petrou (accompagnando anche al clavicembalo le parti recitate), con ottima lena, precisione strumentale e varietà timbrica bellissime, il ridotto complesso orchestrale. La sua direzione spigliata e senza asperità, è stata leggerissima anche nella più frenetica delle girandole ritmiche dove l’esaltazione parossistica si colora di venature liricheggianti o di ammicchi ironici raffinati. Recita molto applaudita da un pubblico internazionale che si è attestato attorno alle diecimila presenze.