(di Davide Rossi) Oltre settant’anni fa l’Assemblea Costituente fu chiamata a lavorare ad un testo che sarebbe diventato uno dei punti di riferimento del costituzionalismo europeo – e non solo – del secondo Novecento.  Sono solamente pochi, però, a ricordarsi che quel fatidico 2 giugno 1946 – data in cui gli italiani furono chiamati a scegliere tra mantenere l’assetto istituzionale monarchico oppure abbracciare la Repubblica, oltre che ad eleggere i rappresentanti per la Costituente – tutta la XII Circoscrizione di Trieste, della Venezia-Giulia e di Zara non poté votare, esclusa all’ultimo momento per motivi di ordine pubblico. Tanto meno ebbe seguito la richiesta di provvedere all’opzione plebiscitaria, seguendo una tradizione risorgimentale ottocentesca, sulla scia dei Quattordici Punti di Wilson, che avevano indirizzato la politica post bellica nel 1919, a conclusione del primo conflitto mondiale.

Inutile aggiungere come tale condizione non fece altro che aumentare quella distanza tra la Storia nazionale e la Storia del confine orientale, sempre più percepita come una vicenda marginale, localistica, quasi non rientrante nel patrimonio culturale italiano, relegata all’interesse di pochi. Quell’Assemblea Costituente, monca dell’apporto giuliano, non ebbe solamente compito di redigere la Costituzione, ma per oltre diciotto mesi dovette affrontare anche il delicato tema della politica internazionale.

Le Forze Alleate, prima unite contro il nazismo e il fascismo e poi in netta antitesi con il blocco sovietico-comunista, erano altrettanto intente a tutelare i propri interessi geopolitici e la zona dei Balcani svolgeva un ruolo peculiare: inglesi, francesi e americani cercarono di trarre maggior personale profitto durante i lavori della Conferenza di Pace parigina.

L’Italia si apprestò ad affrontare quel periodo stretta da una duplice morsa: da una parte l’ostilità che necessariamente deve patire chi è uscito perdente da una guerra, che non può partecipare alle discussioni internazionali e presenzia solamente in quanto invitato, non come un interlocutore necessario. Dall’altra un Governo di larghe intese, al cui interno era presente un forte Partito Comunista, le cui linee strategiche erano antitetiche agli stessi interessi nazionali, in un’ottica internazionalistica e con uno sguardo tutto proteso verso l’Unione Sovietica.

In quegli anni, mentre De Gasperi intraprendeva missioni all’estero, nel tentativo di guadagnarsi i favori di Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti d’America, contemporaneamente rappresentanti del Partito Comunista, in maggioranza al governo, volavano verso Belgrado e Mosca. Su L’Unità del 10 novembre 1946 a firma del segretario Palmiro Togliatti appare un articolo paradigmaticamente intitolato “La politica dei calci nel sedere”, in cui si prendeva pesantemente le distanze dall’operato della diplomazia ufficiale, dando seguito al folle “baratto” con il Maresciallo Tito.

Il Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947 avrà un acre sapore di sconfitta, in cui l’Italia dovrà subire risoluzioni per nulla condivise e che vedevano perdere la sovranità dei territori coloniali, di alcuni piccoli comuni del confine occidentale, ma soprattutto dell’Istria, di Fiume, del carso triestino e goriziano, la piccola provincia di Zara (attribuita all’Italia dal Trattato di Rapallo del 1920 per l’indiscussa italianità di quasi tutta la popolazione), oltre alla creazione del “Territorio Libero di Trieste”, sotto l’egida della costituenda Organizzazione delle Nazioni Unite.

Non è un caso che le più acute grida di protesta giunsero da quegli intellettuali legati al periodo liberale italiano, i vecchi padri della Patria come Vittorio Emanuele Orlando, Francesco Saverio Nitti, Benedetto Croce, preoccupati delle conseguenze di quelle decisioni, più che degli ipotetici effetti positivi della realpolitik democristiana. Quest’ultimo, soprattutto, aveva fatto sentire la sua voce, greve e dissonante, giudicando il Trattato «non solo la notificazione di quanto il vincitore chiede e prende, ma un giudizio morale e giuridico sull’Italia e la pronuncia di un castigo da espiare». Se la dignità e l’orgoglio dell’Italia – si chiedeva il filosofo napoletano – erano state umiliate dalle prepotenze e cupidigie internazionali, quale era il motivo per cui si sarebbe dovuto approvare un testo i cui dettami si sarebbero comunque messi in esecuzione, a prescindere dalla volontà interna?

Con un lapidario «consummatum est», invece, annotava sul suo Diario la non convincente firma il leader del partito socialista Pietro Nenni, anch’esso estremamente critico e preoccupato per le conseguenze che si sarebbero patite a livello regionale. Di “amaro calice”, infine, parla il Capo Provvisorio dello Stato Enrico de Nicola, poco disposto a ratificare il Trattato stesso, consapevole che si sarebbe aggiunto sconforto per un ulteriore e salatissimo conto per Paese ancora diviso e ridotto in macerie.

E infatti il prezzo maggiore del carattere punitivo comminato all’Italia intera fu pagato proprio dagli italiani del confine orientale che, dopo aver patito le violenze delle foibe e delle deportazioni, furono costretti all’esilio, cui si aggiunse la beffa dei beni nazionalizzati e utilizzati dallo Stato italiano per liquidare il debito di guerra con Belgrado, con le promesse di un equo indennizzo la cui attesa dura tutt’ora, lasciando aperta una ferita mai rimarginata.

Di “complesse vicende” parla la Legge istitutiva del Giorno del Ricordo.

La Storia d’Istria, Fiume e Dalmazia è storia secolare, di pietre che parlano italiano, di Leoni che ricordano Venezia, di un Adriatico ponte tra Ravenna e Zara, tanto che è Dante stesso a fissare – nel IX canto dell’Inferno – i confini italiani a «Pola, presso del Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna».

Oggi, a settant’anni di distanza, si chiede rispetto da parte delle Istituzioni, adempimento degli accordi presi, consapevolezza di non essere nuovamente dimenticati.  Il Giorno del Ricordo è il momento in cui l’italianità giuliano-dalmata chiede di ricordare le proprie vittime, il tempo di raccoglimento per commemorare le violenze che ha subito: negare, giustificare e ridimensionare quanto patito costituisce una nuova forma di violenza. Un’immagine letteraria, di intensa drammaticità, ci ricorda i nostri banchi di scuola, con quel giovane Jacopo Ortis, di foscoliana memoria, per cui «il sacrificio della Patria nostra è consumato: tutto è perduto; e la vita, seppur ne verrà concessa, non ci resterà che per piangere le nostre sciagure e la nostra infamia».